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venerdì 8 novembre 2019

DOMENICA XXXII DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 10 Novembre 2019



2Mac 7,1-2.9-14; Sal 16 (17); 2Ts 2,16-3,5; Lc 20,27-38

La prima lettura, tratta dal secondo libro dei Maccabei, ci riporta alcuni tratti dell’epico racconto del martirio dei “sette fratelli”, detti appunto Maccabei; sette fratelli che, con la loro madre, vanno con fierezza incontro al martirio, per non rinnegare la propria fede, nella certezza che Dio li “risusciterà a vita nuova ed eterna”. E’ la prima volta che nella tradizione biblica dell’Antico Testamento appare in maniera esplicita la credenza nella “risurrezione dei morti”. Nel brano evangelico vediamo che Gesù in polemica con i sadducei, che non credevano alla risurrezione, afferma, facendo riferimento a Mosè, che “Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui”. Il fatto che Dio si presenta a Mosè nel roveto ardente come il “Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe” (Es 3,6), vuol dire che nel momento stesso che egli parla egli si sente in rapporto “vitale” coi Patriarchi morti ormai da centinaia di anni. La seconda lettura contempla il disegno di Dio su di noi: all’origine della nostra vita c’è l’amore con cui Dio gratuitamente ci ha amato; al suo traguardo c’è il compimento della speranza che Dio ha posto nei nostri cuori; nel momento presente c’è il conforto con cui egli ci rende stabili “in ogni opera e parola di bene”. Il futuro appartiene alla vita, perché Dio è fedele ai doni fatti e ci libera da tutte le potenze del male e della morte. La vita oltre la vita esiste!

In queste ultime domeniche dell’anno liturgico siamo invitati a dare uno sguardo fiducioso alle ultime e misteriose realtà che ci attendono alla fine della nostra esistenza terrena. Andiamo incontro ad una vita nuova e definitiva, che sarà il superamento di tutto ciò che oggi ci limita, ci condiziona e ci opprime. Questa vita è una vita trasformata per “la forza dello Spirito Santo” (orazione dopo la comunione), ed è partecipazione alla vita stessa di Cristo, “il quale è morto per noi, perché viviamo insieme con lui” (Ufficio delle letture, responsorio). Tra la situazione attuale in cui ci troviamo e lo stato di risorti che attendiamo si compia in noi, c’è continuità ma anche radicale diversità. Ora siamo in cammino verso i beni futuri (cf colletta). La nostra vita quindi non è allo sbaraglio, ma è orientata verso un traguardo ben definito.

L’eucaristia è nutrimento del nostro pellegrinaggio e pegno della vita futura. Gesù lo ha detto chiaramente nel discorso pronunciato nella sinagoga di Cafàrnao: “Chi mangia questo pane vivrà in eterno” (Gv 6,58). Infatti, l’effetto proprio dell’eucaristia è la mutazione dell’uomo in Cristo per cui possiamo dire con san Paolo: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Questa reciproca immanenza ci fa camminare ancora sulla terra, ma già abbracciati e in comunione con Cristo, che ha detto: “Io sono la risurrezione e la vita” (Gv 11,25). Dice il Vaticano II che Cristo “col nutrimento del proprio corpo e del proprio sangue”, ci rende “partecipi della sua vita gloriosa” (Lumen Gentium, n.48). Nell’ora del nostro passaggio da questa vita riceviamo questo sacramento come viatico per la vita eterna e pegno della risurrezione.