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lunedì 7 agosto 2017

COSA ABBIAMO IMPARATO A 10 ANNI DAL MOTU PROPRIO SP DI BENEDETTO XVI



Massimo Faggioli insegna storia del cristianesimo nel Dipartimento di Teologia della University of St. Thoma, a St.Paul-Minnneapolis, in Minnesota. “Il Regno. Attualità e Documenti”, n. 1262 (15 luglio 2017), ha pubblicato un suo intervento dal titolo “Summorum Pontificum”. Tradizione e tradizionalismo, Che cosa abbiamo imparato a 10 anni del Motu proprio di Benedetto XVI (pp. 389-390). In seguito riproduco la parte centrale del testo.


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«Non ci sono dubbi che Benedetto XVI abbia espresso e incarnato un chiaro spostamento da un magistero che vedeva il Vaticano II come parte della tradizione della Chiesa verso un magistero che vedeva il rapporto tra la tradizione della Chiesa e il Vaticano II in termini molto più complessi e problematici.

Su alcuni temi come la riforma liturgica Benedetto XVI non ha esitato ad esprimersi, sia prima della sua elezione al pontificato sia dopo, come sugli elementi che a suo parere pongono il Concilio e la tradizione della Chiesa in un rapporto di tensione, se non di contrasto. Anche se è certo troppo presto per valutare gli effetti a lungo termine di Summorum Pontificum, è necessario iniziare questo sforzo.

Ad esempio, dopo dieci anni è sorprendente rileggere il tentativo precipitoso, e fallito, di Benedetto di interrompere la tendenza a interpretare il motu proprio come denuncia del Vaticano II, cosa che, di fatto, è diffusa nei circoli cattolici tradizionalisti. “In primo luogo, c’è il timore che qui venga intaccata l’autorità del concilio Vaticano II e che una delle sue decisioni essenziali – la riforma liturgica – venga messa in dubbio” scriveva il papa emerito nella lettera che accompagna Summorum Pontificum.

Tuttavia, aggiungeva: “Tale timore è infondato”. Inoltre, Benedetto esprimeva la convinzione che “le due forme dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda”. Su entrambi gli aspetti, però, la realtà di questi ultimi dieci anni ha prodotto qualcosa di molto diverso dalle intenzioni dichiarate dal papa. Anzi, la polemica contro il Vaticano II è stata una componente chiave dell’entusiasmo (e, ora, della nostalgia) per il suo pontificato, mentre la coesistenza delle due forme del rito romano all’interno di particolari comunità rimane una chimera.

Tuttavia, esistono due fenomeni che sono parte del paesaggio ecclesiale e teologico del cattolicesimo romano post-Summorum Pontificum e che sono difficilmente separabili dal pontificato di Benedetto XVI. Il primo fenomeno è che Summorum Pontificum ha rafforzato il mondo preesistente e sociologicamente limitato del tradizionalismo liturgico e lo ha proiettato sul più vasto mondo della Chiesa cattolica, specialmente nei contesti di lingua inglese.

Ha dato legittimità teologica a punti di vista tradizionalisti sulle riforme liturgiche del Vaticano II. Ha accresciuto la visibilità della liturgia tradizionalista negli spazi virtuali della Chiesa cattolica. Negli ultimi dieci anni, i social media sono diventati sempre più un forum dove il popolo di Dio può far sentire la propria voce. Le immagini di paramenti elaborati utilizzati per le celebrazioni liturgiche pre-Vaticano II sono diventati parte della dieta quotidiana di coloro che seguono la vita delle Chiese locali e anche di importanti leader della Chiesa.

Questo ha avuto un impatto significativo su parti consistenti del cattolicesimo romano contemporaneo e di quello futuro, soprattutto sui giovani cattolici impegnati e sui convertiti di recente da altre tradizioni cristiane (specialmente dalle Chiese della Riforma protestante), nonché sui seminaristi e giovani sacerdoti.

Il secondo fenomeno è stato la riduzione a tradizionalismo della teologia di Joseph Ratzinger. In effetti, Summorum Pontificum ha contribuito a distorcere notevolmente l’eredità teologica complessiva di uno dei più importanti teologi del XX secolo. Se l’enfasi di Joseph Ratzinger è stata sulla tradizione della Chiesa (“continuità e riforma”), il pontificato di Benedetto XVI è stato ridotto, soprattutto in questi ultimi anni, a un’icona del tradizionalismo (contro ogni tipo di sviluppo teologico, visto come “discontinuità e rottura”).

Il tradizionalismo liturgico ha contribuito a una comprensione tradizionalistica del cattolicesimo fino a diventare un problema e una sfida per papa Francesco, al punto che l’anno scorso (11 luglio 2016) ha sentito la necessità di intervenire. In un comunicato diffuso dalla Sala Stampa della Santa Sede, ha smentito la cosiddetta “riforma della riforma liturgica”, che il cardinale Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il culto divino, aveva sostenuto ancora una volta, pochi giorni prima, durante una conferenza (“Towards an Authentic Implementation of Sacrosanctum Concilium”) al III convegno dedicato alla “Sacra Liturgia” in svolgimento a Londra.

La dichiarazione vaticana avvertiva del fatto che l’espressione “riforma della riforma” poteva essere “fonte di equivoci”, ma ha anche chiarito che Francesco non aveva intenzione di eliminare il tradizionalismo liturgico cattolico. Piuttosto voleva che rimanesse nello spazio limitato e specifico che il suo predecessore gli aveva assegnato.

La forma straordinaria che è stata permessa dal papa Benedetto XVI per le finalità e con le modalità da lui spiegate nel motu proprio Summorum Pontificum, non deve prendere il posto di quella ordinaria, diceva il comunicato. L’intervento di papa Francesco è notevole, anche perché il suo pontificato certamente non può essere accusato di progressismo liturgico, alla luce dell’enfasi sulle devozioni, e in particolare sulla devozione mariana, e sui santuari»

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