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venerdì 1 marzo 2019

DOMENICA VIII DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 3 Marzo 2019



Sir 27,5-8; Sal 91; 1Cor 15,54-58; Lc 6,39-45


L’inizio del Sal 91 è un inno di lode al Signore per il suo amore e la sua fedeltà. Il seguito del testo è, invece, occupato da un confronto tra il giusto e l’empio davanti a Dio. Di questo confronto la liturgia odierna ci propone solo gli ultimi versetti del salmo in cui viene tracciato il ritratto del giusto. Questi versetti sono ripresi frequentemente dalla liturgia della Chiesa per celebrare la gloria dei Santi. La robustezza, la fecondità e la longevità dei cedri e delle palme, le piante più rigogliose della Palestina, sono un simbolo espressivo della ricchezza della vita interiore degli uomini giusti.


La liturgia odierna è un pressante invito a rientrare in se stessi per arricchire il cuore e trasformare la propria vita in un “albero di frutti buoni”. Il breve brano del libro del Siracide, proposto come prima lettura (Sir 27,4-7) mette in risalto l’importanza e la funzione della parola: essa prova quanto valga una persona e rivela i sentimenti più intimi del suo cuore. Soltanto chi ha un cuore ricco di Dio potrà dire parole di vero amore che infondano gioia e speranza.


Nel brano evangelico (Lc 6,39-45) Gesù con un linguaggio semplice e concreto, a portata di coloro che lo ascoltano, allarga il discorso e parla della vera ricchezza dell’uomo che, radicata nel suo cuore, e si manifesta nelle sue opere: “L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore”. Parole, intenzioni, programmi, non bastano. Si richiedono i frutti, che a loro volta rivelano la natura buona o cattiva dell’albero. Per l’uomo quello che conta è il cuore, il centro dei suoi pensieri e delle sue scelte, dove la libertà esprime se stessa: il cuore “è il luogo della decisione… È il luogo della verità, là dove scegliamo la vita o la morte” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n.2563). Quando le parole e le opere non sono in sintonia, allora il nostro cuore è diviso. E’ l’ipocrisia di cui parla Gesù. L’epiteto “ipocrita” nella lingua classica greca designa l’attore che recita una parte mettendosi la maschera. Chi si comporta con la presunzione di condannare gli altri si rivela un ipocrita, che per dissimulare le proprie miserie si mostra zelante della perfezione altrui. Dio solo è il giudice perché soltanto lui conosce veramente le profondità del cuore umano. All’ipocrisia si oppone la sincerità del cuore.


In una società, come la nostra, fondata sulla comunicazione orale, le parole non mancano mai. Possiamo ben dire però che oggi troppe parole si vendono a buon mercato. E’ un chiasso assordante! Si ha poi la sensazione che le parole non hanno valore per quel che esprimono ma per come si dicono. Sembra addirittura che abbia ragione chi grida di più. La parola è svalutata perché non è in armonia col cuore e con la vita. La parola ritroverà tutto il suo valore a condizione che diventi espressiva di fatti, di autentici valori di vita, e ciò è possibile solo se la nostra parola viene ricollegata alla Parola di verità che è Cristo. Si tratta di accogliere questa Parola nel cuore e attuarla nella vita. E’ un impegno quotidiano del discepolo di Gesù, una fatica che, come dice san Paolo nella seconda lettura (1Cor 15,54-58) non è vana, perché nel Signore Gesù Cristo Dio ci dà la vittoria.