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domenica 14 settembre 2025

UN RITO ULTRAMILLENARIO “VIETATO”?

 


 

Papa Francesco è intervenuto più volte sulla Messa in rito antico, o meglio sull’uso del Messale del 1962. Serve riavvicinarsi a chi è legato a questa modalità celebrativa?

Nella Chiesa tutti i battezzati hanno cittadinanza, se ne condividono il Credo e la morale conseguente. Nei secoli la diversità di riti celebrativi dell’unico sacrificio eucaristico non ha mai creato problema all’autorità, perché era chiara l’unità della fede. Anzi, ritengo sia una grande ricchezza la varietà dei riti nel mondo cattolico. Un rito, poi, non si compone alla scrivania, ma è il frutto di stratificazione e sedimentazione teologico-cultuale. Mi chiedo se si possa “vietare” un rito ultramillenario. Infine, se la liturgia è una fonte anche per la teologia, come vietare l’accesso alle “fonti antiche”? Sarebbe come vietare lo studio di sant’Agostino a chi volesse riflettere correttamente sulla grazia o sulla Trinità.

(Dall’intervista al Card. Robert Sarah, pubblicata nel giornale L’Avvenire del 12.09.2025).

Il card. Sarah parla di un rito ultramillenario (“vietato”), nel caso specifico, il rito romano nella sua versione del 1962. Anzitutto, il rito romano nella sua versione del 1962 non è stato vietato, ma riformato in ossequio a quanto deciso dal Concilio Vaticano II nella Costituzione Sacrosanctum Concilium. I libri liturgici del 1962 possono sempre essere adoperati come fonti anche per la teologia, e lo studioso noterà, tra l'altro, che in alcuni aspetti (nel loro linguagio verbale e non verbale) non esprimono la ecclesiologia del Vaticano II.   

venerdì 12 settembre 2025

ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE – 14 Settembre 2025

 



 

Nm 21,4b-9; Sal 77 (78); Fil 2,6-11; Gv 3,13-17

 

Il Sal 77 è uno dei più grandiosi del Salterio. Dagli avvenimenti della storia d’Israele e, in particolare, dal ricordo della misericordia di Dio e delle infedeltà del popolo, il salmo cerca di trarre insegnamenti per il presente. Alcuni Padri hanno attribuito le espressioni del Sal 77 alla storia della passione di Cristo. La liturgia del Venerdì Santo traduce il lamento del salmo nei “rimproveri” rivolti da Cristo al suo popolo infedele. I versetti ripresi dall’odierno salmo responsoriale possono essere considerati un insegnamento che Cristo rivolge alla sua Chiesa, affinché riponga la sua fiducia in Dio, non dimentichi ciò che egli ha compiuto per lei e sia fedele alla sua alleanza.

 

Le feste della santa Croce (prima del 1960 erano due: Invenzione della santa Croce [3 maggio] e Esaltazione della santa Croce [14 settembre]) nella loro origine risalgono alla dedicazione delle due basiliche fatte costruire da Costantino a Gerusalemme, una sul luogo del Calvario e l’altra su quella del sepolcro di Cristo. L’attuale festa del 14 settembre celebra la Croce come mistero di salvezza, come bene esprime il prefazio della messa: “Nel legno della Croce tu hai stabilito la salvezza dell’uomo, perché da dove sorgeva la morte di là risorgesse la vita, e chi dall’albero dell’Eden traeva vittoria, dall’albero della croce venisse sconfitto”. Le letture bibliche si muovono su questa linea.

 

La prima lettura ricorda l’infedeltà d’Israele nel deserto e la conseguente punizione di Dio che manda i serpenti velenosi, i quali causano la morte di gran numero d’Israeliti. Dopo il pentimento del popolo, Dio ordina a Mosè di fare un serpente di rame e metterlo sopra un’asta: “chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita”. Questo evento è stato interpretato dal libro della Sapienza come “segno” o “pegno” di salvezza offerto da Dio ad Israele (16,6-7).

 

La lettura evangelica riporta un brano del colloquio di Gesù con Nicodemo, in cui anche Gesù fa riferimento all’episodio del serpente nel deserto: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”. Per essere salvati, bisognerà “guardare” il Cristo, il Verbo di Dio “disceso” dal cielo e poi “innalzato” sulla Croce, bisognerà cioè credere che Egli è “l’unigenito Figlio di Dio” (Gv 3,18).  La parola “innalzato” significa, in Giovanni, tanto l’inalberamento di Cristo sul tronco della Croce, quanto la sua esaltazione gloriosa (cf. Gv 8,28; 12,32-34). La Croce è esaltazione dell’amore di Dio per noi: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito…” Perciò la colletta della messa può affermare che “con la Croce di Cristo […] abbiamo conosciuto in terra il suo mistero” di amore.

 

Anche il grandioso inno paolino della seconda lettura interpreta il mistero di Cristo attraverso lo schema: discesa, spogliazione o abbassamento (incarnazione) ed elevazione o esaltazione (morte e risurrezione). La croce è l’abisso dell’abbassamento, ma anche l’apice dell’esaltazione nella gloria pasquale. Dinanzi a questo mistero, ogni lingua deve proclamare che “Gesù Cristo è il Signore”. La Croce è l’albero della vita e noi nell’eucaristia ne cogliamo i frutti (cf. le orazioni sulle offerte e quella dopo la comunione).

domenica 7 settembre 2025

ANNO LITURGICO ED EVANGELIZZAZIONE




 

La liturgia, celebrata nel corso dell’Anno liturgico, ha una speciale efficacia per alimentare la fede dei partecipanti. Certamente l’Anno liturgico non può essere strumentalizzato e trasformato in un “programma” di evangelizzazione fatto a tavolino, né in una prima catechesi di iniziazione cristiana, perché l’Anno liturgico è il luogo dove i fedeli già convertiti e credenti, celebriamo il mistero che nutre la nostra fede (cf. SC, n. 9). In ogni modo, il ciclo annuale dei tempi e delle festività dell’Anno liturgico contiene in sé stesso una grande forza evangelizzatrice, e può diventare il luogo ideale di una permanente evangelizzazione del popolo di Dio. Infatti, quale scopo ha l’evangelizzazione? Nella prima Lettera ai Corinzi, san Paolo afferma che il Vangelo che egli ha annunciato ed i Corinzi hanno ricevuto è: “che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture…” (cf. 1Cor 15,1-5). Si tratta del mistero centrale della storia della nostra salvezza, che noi proclamiamo nel Credo.

Questa storia di salvezza è narrata dalla Bibbia e celebrata dalla liturgia. Quanto la Bibbia racconta dal Libro della Genesi a quello dell’Apocalisse, la liturgia lo ri-presenta lungo il cammino che dalla prima domenica di Avvento porta all’ultima domenica del Tempo Ordinario, e cioè l’unico piano salvifico di Dio. Nella Bibbia esso si svolge “con eventi e parole intimamente connessi tra loro, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole proclamano le opere e illuminano il mistero in esse contenuto” (Dei Verbum [DV], n. 2). Secondo i modi ad esso propri l’Anno liturgico ri-narra questo cammino, lo interpreta e lo annuncia realizzato nel mistero di Cristo, “il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione” (DV, n. 2). L’Anno liturgico conferisce quindi un particolare realismo alla parola di Dio in quanto l’attesta compiuta nel nostro oggi: “La Chiesa, specialmente nei tempi di Avvento, di Quaresima e soprattutto nella notte di Pasqua, rilegge e rivive tutti i grandi eventi della storia della salvezza nel ‘oggi’ della sua liturgia” (Catechismo della Chiesa Cattolica n.1095).

venerdì 5 settembre 2025

DOMENICA XXIII DEL TEMPO ORDINARIO (C) – 7 Settembre 2025

 



 

 

Sap 9,13-18; Sal 89 (90); Fm 9b-10.12-17; Lc 14,25-33

 

                   

Se vogliamo trovare un concetto che riassuma il messaggio delle letture bibliche odierne, possiamo dire che la parola di Dio ci propone una precisa scala di valori con la quale misurare e verificare la realtà ed essere quindi in grado di fare delle scelte sapienti. Dice Gesù nel vangelo: “Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo”. Queste parole si trovano nel contesto di una serie di affermazioni del Signore che intendono illustrare il carattere radicale che comporta la scelta di colui che intende diventare discepolo di Gesù. Diventare discepolo di Gesù, essere cristiano significa fare una precisa scelta di campo. Gesù vuol essere scelto come valore assoluto e determinante della vita dei suoi discepoli. La serietà della sequela di Gesù comporta un investimento di tutto il proprio essere a livello esistenziale; è quindi una scelta che la si può portare a termine solo se si è disposti a una totale donazione di sé, un totale amore per il Cristo; è una scelta che richiede una totale libertà interiore.

 

Il messaggio evangelico sconvolge i nostri abituali schemi mentali. Come è stato per Filèmone, un ricco signore, divenuto cristiano per opera di Paolo che lo chiama suo diletto e suo collaboratore (cf seconda lettura). L’apostolo si rivolge a questo suo discepolo e gli chiede che accolga Onèsimo, schiavo che era fuggito da Filèmone rubandogli del denaro, e lo riceva “non più però come schiavo” ma “come fratello carissimo”. Ciò che Paolo chiede a Filèmone è un grosso strappo con la mentalità e il diritto del tempo. E tutto questo in fedeltà ai valori del Vangelo. Prima e fondamentale conseguenza della sequela è la scoperta che nel Cristo siamo e diventiamo tutti fratelli. Paolo non affronta direttamente il problema della schiavitù; pone però principi e gesti concreti che sono in grado di contestare ed eliminare ogni ingiustizia e quindi la stessa schiavitù.

 

Ma come è possibile conformare la nostra vita alla logica del Vangelo, alla scala di valori proposta da Gesù? La prima lettura è un brano di una meditazione di Salomone sull’incapacità dell’uomo a capire la volontà di Dio. Nella ricerca di Dio la nostra mente si perde negli spazi infiniti di un mistero che l’intelligenza umana non riesce a contenere. I pensieri di Dio non coincidono con quelli degli uomini: tra loro c’è una differenza abissale. È quello che si percepisce quando si intende cogliere il messaggio radicale del Vangelo e la scala di valori in esso racchiusa. Come l’autore del brano della Sapienza, anche noi siamo chiamati a porci umilmente di fronte a questo mistero per poter accogliere l’unica parola che illumina e che salva. È Dio stesso che ci guida con la sua Sapienza, e cioè con lo Spirito di Cristo che ci è stato dato. Cristo, Sapienza del Padre, si comunica a noi soprattutto “alla mensa della parola e del pane di vita” (orazione dopo la comunione).

 

 

venerdì 1 agosto 2025

MEDITAZIONE ESTIVA

 

Con la morte di papa Francesco e l’elezione di papa Leone XIV, si sono risvegliati i dibattiti sull’uso della liturgia di Pio V nella sua edizione del 1962. Ripropongo ai miei lettori, come meditazione estiva, quanto avevo scritto quattro anni fa.  

 

LE APORIE DI “SUMMORUM PONTIFICUM”

 

In questo blog e altrove, ho più volte segnalato i punti deboli o, mi si permetta di chiamarli, le “aporie” del Motu proprio “Summorum Pontificum” [SP] con la Lettera ai vescovi che l’accompagna. Dopo la pubblicazione del Motu proprio “Traditionis custodes”, queste aporie acquistano una maggior evidenza.

1. Si afferma che il Messale del 1962 “non fu mai giuridicamente abrogato”. È un’affermazione che contraddice quanto ripetutamente aveva detto Paolo VI. D’altra parte, esiste il Pontificio Consiglio per i testi legislativi, “la cui funzione consiste soprattutto nella interpretazione delle leggi della Chiesa”, e non consta che questo Consiglio si abbia pronunciato al riguardo.

2. Si riconosce, citando SC 22, che “ogni vescovo è il moderatore della liturgia nella propria diocesi”. D’altra parte, però si sottrae al vescovo la possibilità di regolare l’uso del Messale del 1962. A tal punto che la Conferenza dei vescovi della Francia nella risposta al formulario sull’applicazione del Motu proprio SP inviato dalla Congregazione per la dottrina della fede, dice, tra l’altro, che “l’autorità dei vescovi su queste comunità (che celebrano col Messale del 1962) è quasi nulla”.

3. SP introduce accanto alla “forma ordinaria” del rito romano (la riforma di Paolo VI) una “forma straordinaria” dello stesso rito romano (la liturgia del 1962). Rimane incomprensibile come due Liturgie, con ordinamento di letture diverso, calendari differenti, testi diversi nei Tempi centrali dell’Anno liturgico, come cioè due forme espressive diverse della lex orandi possano realmente armonizzarsi con una lex credendi della Chiesa. Ciò si può sostenere soltanto se non è il rito in sé ma il significato del rito a confrontarsi con la lex orandi. In questo modo verrebbe meno una visione teologica che è maturata nel corso del Movimento liturgico e svanirebbe una fattiva acquisizione della teologia liturgica postconciliare.

4. Si afferma che “le due forme dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda”. Affermazione ambigua che qualche anno fa ha ispirato ad un Emmo. Cardinale la proposta di aggiungere nell’offertorio del Messale paolino le preghiere (ad libitum) dell’offertorio del Messale del 1962.

5. “Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande”. Questa solenne affermazione, come è stato notato anche recentemente, è un principio che scatena una vera e propria anarchia, perché si può applicare non solo al Messale del 1962, ma ad altre espressioni rituali precedenti. Infatti, è noto che alcuni gruppi che adoperano il Messale del 1962 non accettano il Triduo pasquale riformato da Pio XII in esso inserito e, nell’occasione, adoperano una edizione del Messale anteriore a tale riforma.

6. Sembra chiaro che i criteri con cui la Lettera del 7 luglio 2007 giustifica il ripristino della liturgia del 1962 sono di carattere soggettivo (desiderio, forma a loro cara, sentirsi attirati, forma appropriata per loro…). Diverso è il criterio che il card. Joseph Ratzinger nel 2001, al tempo Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, esprimeva quando affermava: “Se l'ecclesialità diventa una questione di libera scelta, se ci sono nella Chiesa delle chiese rituali scelte secondo un criterio soggettivo, questo diventa un problema. La Chiesa è costruita sui vescovi secondo la successione apostolica, nella forma di Chiese locali, quindi con un criterio oggettivo. Io mi trovo in questa Chiesa locale e non cerco i miei amici, incontro i miei fratelli e le mie sorelle; i fratelli e le sorelle non si cercano, si incontrano” (Autour de la question liturgique. Avec le Cardinal Ratzinger, Actes des Journées liturgiques de Fontgombault 22-24 Juillet 2001, Association Petrus a Stella, Fontgombault, 2001). Permettere di scegliere “à la carte” la propria tradizione rituale è un modo di ferire gravemente l’unità e la struttura della Chiesa. Il problema non è solo rituale, ma ecclesiologico.

 




domenica 27 luglio 2025

MARIA VENERATA NEI SECOLI

 



 

Corrado Maggioni, Tutte le generazioni ti chiamano Beata. Due millenni di liturgia e pietà popolare (Sapientia ineffabilis 43), IF Press srl, Roma 2025. 380 pp. (€ 25,00).

 

Maria è parte del mistero di Cristo. Lo hanno compreso le prime comunità cristiane e l’hanno celebrata, chiamandola beata! La beatitudine della Madre del Signore sta tutta nell’aver creduto, divenendo matrice di salvezza per ogni generazione. La sua memoria ha infatti permeato le tradizioni oranti di Oriente e Occidente, come si descrive nei nove capitoli di questo libro.

I primi secoli testimoniano le fonti della pietà mariana (Capitolo I), approfondita in epoca patristica come attestato dall’omiletica mariana orientale dei secoli IV-V (Capitolo II) e dalla portata mariana del Natale in Occidente nella tarda antichità e primo Medioevo (Capitolo III). Sono poi le feste in onore di Maria a maturare, nei secoli V-VIII, la venerazione per la Madre di Dio nelle Chiese orientali e occidentali (Capitolo IV). La pietà liturgico-mariana si arricchisce nei secoli VIII-XI (Capitolo V), mentre nei secoli XII-XV sorgono in Occidente altre feste mariane e fiorisce rigogliosa la pietà mariana non liturgica (Capitolo VI). Il percorso continua con le feste mariane dei libri liturgici tridentini e gli sviluppi del Calendario romano nei secoli XVI-XX, senza dimenticare pie pratiche e devozioni (Capitolo VII). Il rinnovamento del Concilio Vaticano II ha riguardato anche la memoria di Maria nell’anno liturgico e nell’odierno Calendario romano, come le particolarità mariane delle altre liturgie occidentali, l’ambrosiana e l’ispano mozarabica (Capitolo VIII). Anche la pietà popolare mariana, ereditata da secoli, è chiamata al rinnovamento alla luce della liturgia, con la quale deve armonizzarsi (Capitolo IX).


(Quarta di copertina)

 

venerdì 25 luglio 2025

DOMENICA XVII DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 27 Luglio 2025

 



 

Gen 18,20-32; Sal 137 (138); Col 2,12-14; Lc 11,1-13

 

Il ritornello del salmo responsoriale (“Nel giorno in cui ti ho invocato mi ha risposto”) ci invita a riflettere sulla preghiera, tema che unifica la prima e terza lettura di questa domenica.

 

La prima lettura ci parla della supplica coraggiosa e insistente di Abramo che si rivolge al Signore perché conceda misericordia alle città colpevoli di Sodoma e Gomorra, anche solo per la presenza di alcuni giusti. Purtroppo, però, questi giusti non ci sono. In ogni modo, il testo biblico sottolinea tutto il valore di intercessione di questa preghiera del patriarca, “nostro padre nella fede”; nello stesso tempo sta pure a dire che il Signore riconosce ai “giusti” una vera funzione “salvifica”. San Luca, nel brano evangelico ci racconta che un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e, quando ebbe finito, uno dei discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare”. Gesù risponde con la preghiera del Padre nostro e aggiunge due brevi parabole che descrivono l’atteggiamento di fiduciosa perseveranza con cui i discepoli devono rivolgersi a Dio nella preghiera.

 

Notiamo anzitutto che la domanda del discepolo a Gesù è provocata dall’esempio dello stesso Gesù. I discepoli, come ogni ebreo, sapevano pregare, e tuttavia intuivano che c’era qualcosa di diverso nella preghiera di Gesù, un modo nuovo di rivolgersi a Dio. La novità della preghiera cristiana consiste in un nuovo rapporto con Dio, che viene invocato semplicemente come “Padre” in modo familiare: Abbà, caro Padre. L’audacia di Abramo è superata dall’audacia di Gesù e dei suoi discepoli che nel suo nome dicono: Abbà. Le parole di san Paolo (cf. seconda lettura) sembrano spiegarci il perché Dio va invocato come Padre: attraverso la morte di Cristo, Figlio di Dio, i nostri peccati sono stati perdonati, il “debito” con Dio è stato “pagato”; ormai possiamo avere con lui rapporti filiali. Un’antica tradizione raccomanda di recitare il Padre nostro “tre volte al giorno” (Didaché 8,3), mattino, mezzogiorno e sera, come preghiera fondamentale che conserva in noi l’atteggiamento filiale verso Dio. Sintesi di tutto il vangelo, come afferma Tertulliano, il Padre nostro più che una formula da recitare, esprime un atteggiamento da interiorizzare.

 

La preghiera si può compiere più facilmente durante il tempo libero delle vacanze. Non è però una semplice attività da eseguire accanto ad altre. Nella preghiera diventiamo noi stessi nel modo più autentico, ci ritroviamo senza maschera, esprimiamo il nostro nucleo più intimo. Dopo la rivelazione del mistero della preghiera filiale di Cristo, per noi cristiani questo nucleo più intimo è il nostro essere “figli”, con un atteggiamento di piena sottomissione e di altrettanto piena fiducia in Dio, nostro Padre. Pregare non significa cercare di imporre a Dio la nostra volontà, ma chiedergli di renderci disponibili alla sua, al suo progetto di salvezza (“venga il tuo regno”). Troppo spesso le nostre preghiere guardano invece l’immediato, senza incrociare lo sguardo di Colui che sa in cosa consista la nostra felicità.

 

Una visione antropocentrica, frequente oggi, rischia, nei migliori dei casi, di ridurre la preghiera a una semplice attività di riflessione, in vista di un aggiustamento del proprio equilibrio psicologico. La preghiera invece è anzitutto ascolto, non solo della natura, della storia, di se stessi, ma ascolto soprattutto della Parola di Dio. Si potrebbe dire che, se per Dio “in principio è la Parola” (cf. Gv 1,1), per noi “in principio è l’ascolto”.