Translate

domenica 28 gennaio 2018

GLI UOMINI MANGIANO SIMBOLI






Il segno, il simbolo, non è solo una via di comunicazione o, prima ancora, un momento o una componente dell’atto conoscitivo; è molto di più, è un nutrimento. Gli uomini mangiano simboli, si nutrono di simboli. Se noi guardiamo attorno a noi, nelle cose e nei gesti circostanti, vediamo che le cose che non hanno valore di segno, che non sono insieme cose e simboli, sono cose che non significano nulla; sono chiuse nella loro identità di cose; non sono tramite, non conversano. E cose come queste, se ci sono, non entrano nella nostra vita, non ci alimentano.

Gli uomini mangiano simboli. C’è chi è portato a pensare che i segni eucaristici risultino da una scelta sostanzialmente arbitraria: un arbitrio garantito dal Mistero, ma del tutto convenzionale. Invece, il simbolo che si lascia mangiare è un fatto di tutti i giorni. C’è chi ha ingurgitato anche troppi simboli in vita, a differenza di altri che hanno patito di fame. Il discorso sul “verbalismo” si riduce appunto a questo.

Esiste di fatto – ed è così vicino a noi da essere più o meno identico a noi – un personaggio che fa per mestiere il “verificatore di simboli”. Oltre l’atto di parlare, non ha altro: assorbe il simbolo e lascia in disparte la cosa. Anche un cristiano che ha una vita spirituale esteriormente intensa può risultare vuoto di cose e ubriaco di simboli; può accadere perfino che si venga via via svuotando in lui, a ogni nuovo sorger di sole, quel simbolo infinitamente colmo che è la Messa. La quale può ridursi a recita (per un sacerdote) o a spettacolo (per un laico), cioè a vita nel simbolo: la cosa, che è Dio medesimo, si allontana di volta in volta, sublimata in simboli.

I simboli sono un cibo necessario, ma rischioso. Ufficialmente i segni significativi, senza le cose significate, sono nutrimento per esteti, per tutto il sottopopolo delle culture preraffaellita, parnassiana e dannunziana; in effetti sono il cibo quotidiano di chi dà per fare le cose di cui possiede i segni espressivi.

Ma gli uomini mangiano soltanto simboli. L’eros è un simbolo dell’appropriazione, della ricapitolazione, della divinità dell’io empirico, del dono di sé. Segni contrastanti, immediatamente contraddittori, perché le medesime cose, i medesimi gesti, le medesime ragioni possono essere assunte nel modo più diverso. La conversazione è un simbolo della solitudine di chi parla, della sua soddisfatta e loquace presenza in mezzo agli uomini (“agli altri ed a se stesso amico), della compassione di sé, del rimorso. Andare a caccia è un simbolo: di noia provinciale, di virilità, di continuità ancestrale, di possesso o di conquista.

Comunicarsi sacramentalmente è anche un simbolo dell’amore in Cristo per il comunicante, un amore accettato o sbeffeggiato a seconda che ci si comunichi in grazia di Dio o con intento sacrilego. Perfino chi uccide cerca un simbolo di liberazione, di invasione, di affermazione della propria mortalità e della propria salvezza.

Non c’è atto umano che non sia simbolo: perché l’uomo, ogni volta che si impegna, perciò stesso si esprime, si pronuncia, comunica se stesso ad altri (anche se poi questo altro è, in modo aberrante, solo egli stesso, replicato al di fuori di sé, trasferito in un altro da sé e poi riconosciuto e verificato in questo processo di alienazione).

Non c’è atto umano che non sia discorso, e quindi alimento per simboli. Non c’è atto umano che passi per cose che non sono simboli. Può passare per simboli lontani e distratti dalle cose, per simboli che si danno come equivalenti delle cose a cui si sostituiscono; ma per cose che non sono simboli, questo no.


Fonte: Saverio Corradino, L’uomo e la parola: la tentazione del verbalismo, in “La Civiltà Cattolica”, n. 4019 (2/16 dicembre 2017), pp. 455-456.