La sacralità è così ambigua che ha
bisogno di essere costantemente evangelizzata. Il vocabolario biblico non è
infatti quello del “sacro” (sono piuttosto i dèi pagani che vengono
sacralizzati), ma quello del “santo”. Ecco perché, se c’è del sacro in
liturgia, questo è al servizio della santificazione di ciò che le nostre lingue
occidentali, direttamente o indirettamente dipendenti dalla lingua latina,
chiamano “profano”, e non della sacralizzazione: il profano deve essere
lasciato alla sua “profanità”, se mi è permesso di usare questa parola un po’
barbara, cosa che la sua sacralizzazione non può fare, perché la
sacralizzazione funziona come “messa a parte” dell’oggetto, della persona, del
luogo, e presuppone il suo allontanamento dal mondo dell’ordinario per essere
consacrato alla divinità. Al contrario, la santificazione di ciò che rimane
profano è possibile al punto che anche il vocabolario sacrificale usato in
prospettiva cristiana nel Nuovo Testamento viene “dirottato” in questo senso. Tra
la quindicina di esempi presenti nel Nuovo Testamento, ne spiccano due:
“Vi esorto dunque, fratelli, per la
misericordia di Dio, a presentare il vostro corpo – tutta la vostra persona –
come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio, questo è per voi il modo giusto
di rendergli culto” (Rm 12,1).
“Per mezzo di Gesù, dunque,
offriamo a Dio continuamente un sacrificio di lode, cioè le parole delle nostre
labbra che confessano il suo nome. Non dimenticatevi di essere generosi e di
condividere i beni, perché di tali sacrifici il Signore si compiace” (Eb
13,15s.).
Così è la stessa sua vita che il
cristiano è chiamato a offrire come sacrificio spirituale, come culto capace di
“placare Dio” e in particolare proprio in questa vita “profana”, come cura concreta
per gli altri. Ricordiamo che le basi erano già state largamente gettate dai
profeti, come mostrano le tre citazioni fatte in precedenza (Os 6,6; Is 29,13;
Ger 7,9-11); la novità cristiana sta nel fatto che questo chiarissimo movimento
verso la spiritualizzazione del sacrificio e di tutto il sacro in generale è
legato al Signore Gesù e all’offerta che egli ha fatto della propria vita,
offerta interpretata, in termini ebraici, come “sacrificio di soave odore (Ef
5,2).
La Lettera agli Ebrei in tal senso
è esemplare: rileggendo tutta la prima alleanza dal punto di vista del culto
del tempio (cioè del sacerdozio e dei sacrifici), vede in Gesù il nuovo e unico
sommo sacerdote che porta a compimento il sacerdozio del tempio. La sua novità
e unicità risiedono nel fatto che, nell’antica alleanza, la consacrazione del
sommo sacerdote comportava una ritualità di separazione che lo “strappava”
dalla sua umanità di “troppo umano” per poter esercitare l’ufficio di
intermediario sacerdotale tra Dio e gli uomini, mentre la consacrazione di Gesù
come sommo sacerdote avviene, al contrario, per il fatto che egli si immerge
nella nostra umanità sino a farsi “in tutto nostro fratello” (Eb 2,17) e a
condividere così le nostre sofferenze e la nostra morte.
Tutto ciò mostra chiaramente il
rovesciamento operato dalla fede cristiana: “rovesciamento”, non “sostituzione”.
La sacralità, che è necessaria, rimane, ma è lì solo per essere meglio
dirottata a vantaggio di ciò che sintetizza tutta la Torah: il duplice amore
per Dio e per l’altro; o meglio, l’amore per Dio che si compie nell’amore per l’altro.
“Chi ama l’altro ha adempiuto tutta la Legge” (Rm 13,8), scriveva san Paolo.
Fonte: cfr. Louis-Marie Chauvet, La Messa detta altrimenti. Ritornare ai
fondamentali, Queriniana, Brescia 2024, pp. 16-18.