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domenica 24 dicembre 2017

NATALE DEL SIGNORE



NATALE DEL SIGNORE – 25 Dicembre 2017
Messa della notte


Is 9,1-3.5-6; Sal 95 (96); Tt 2,11-14; Lc 2,1-14

Il brano evangelico della notte di Natale illustra con scarna e suggestiva semplicità il contesto storico e geografico della nascita di Gesù. Il Salvatore nasce in un momento ben determinato della storia umana, in un luogo povero e sconosciuto. Testimoni di questo evento sono stati alcuni umili pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo è apparso ai pastori, annunciando la portata salvifica dell’avvenimento: “Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore”. E’ un “oggi” vero spartiacque della storia. Il tempo dell’attesa è finito: il Salvatore, il promesso discendente di Davide, è nato, ed è nato oggi. La liturgia di questa notte ripete l’avverbio di tempo “oggi”, che nella sua semplicità esprime il dinamismo salvifico dell’economia sacramentale, eco e continuazione dell’economia storico-salvifica (cf. antifona d’ingresso, salmo responsoriale, canto al vangelo, antifona alla comunione). Nella notte di Natale siamo invitati a fare nostra la gioia dei tempi messianici e a ringraziare Dio “nel più alto dei cieli” per le meraviglie da lui compiute a favore degli uomini che egli ama. La gioia natalizia ha come fondamento il fatto che la salvezza si realizza nell’oggi.

Notiamo i tre titoli dati dall’angelo a Gesù: Salvatore, Cristo e Signore. Il ritornello del salmo responsoriale riprende le parole dell’angelo ai pastori: “Oggi è nato per noi il Salvatore”. Come sottolinea il riferimento alla città di Davide, questo Salvatore si identifica col Messia, il Cristo. Non si tratta perciò di una salvezza qualunque, ma di quella messianica in cui si verifica la salvezza definitiva. Anche il brano profetico della prima lettura preannuncia una prodigiosa liberazione e l’instaurazione di un regno di pace e di giustizia ad opera di un fanciullo della stirpe davidica. Il brano paolino della seconda lettura parla della “manifestazione della gloria del nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo”. Gesù riceve il nome di Signore (Kyrios), espressione che sta a significare il nome di Dio. Gesù ha applicato a se stesso il Sal 110, dove Davide chiama il Messia suo Signore.

La moltitudine dell’esercito celeste loda Dio e dice: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini che egli ama”. La nascita di Gesù è la manifestazione della gloria divina al mondo. Nelle teofanie dell’Antico Testamento l’autorivelazione di Dio agli uomini era parziale e avveniva fra spaventosi fenomeni cosmici. A Natale il mondo divino si automanifesta in modo compiuto e nella semplicità di un Bambino in un’atmosfera di gioia che coinvolge cielo e terra. Dio si manifesta sotto sembianze umane. Si tratta quindi di riconoscere il mistero della presenza di Dio nelle trame degli eventi umani, di credere in Dio a partire da una realtà che agli occhi del nostro corpo appare puramente umana. E’ in questa ottica che possiamo interpretare i piccoli segni che accompagnano il grande segno, il Bambino: le fasce, la mangiatoia… I termini “gloria” e “pace” sono intimamente collegati e si illuminano a vicenda: la “gloria” sale finalmente a Dio dalla terra, perché in Cristo si attua il suo disegno di amore e di salvezza; la “pace” esprime la pienezza dei beni messianici, fra cui anche l’effettiva rappacificazione degli uomini fra di loro.

Convocati per la gioiosa celebrazione della liturgia natalizia siamo invitati a testimoniare “nella vita l’annunzio della salvezza, per giungere alla gloria del cielo” (preghiera dopo la comunione).


NATALE DEL SIGNORE – 25 Dicembre 2017
Messa dell’aurora


Is 62,11-12; dal Sal 96 (97); Tt 3,4-7; Lc 2,15-20

La Messa natalizia dell’aurora ci propone ancora un brano evangelico tratto da san Luca, che fa seguito a quello letto nella messa della notte. In questa seconda parte del racconto, i protagonisti sono i pastori e Maria. I pastori vanno a Betlemme ad adorare il Bambino e poi annunciano ciò che hanno visto. Maria appare in meditazione silenziosa davanti al bambino “che giace in una mangiatoia”.   

Una volta gli angeli si sono allontanati dai pastori, essi si affrettarono a recarsi a Betlemme: “Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere”. All’annuncio segue l’ubbidienza della fede. I pastori vogliono vedere l’evento. La parola del Signore è sempre un evento. Per questo si affrettano e trovano Maria e Giuseppe e il bambino. Quanto è stato annunciato dall’angelo è vero e se lo dicono l’un l’altro e raccontano ciò che di quel bambino è stato detto loro. Luca parla di “tutti quelli che udivano…” La scena quindi si allarga: è agli abitanti di Betlemme, a tutti coloro che trovano nel loro cammino che i pastori raccontano quanto è avvenuto. I pastori se ne sono andati “glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto”. Il loro andare diventerà, nel corso del Vangelo e degli Atti degli Apostoli, paradigma della diffusione del Vangelo tra le genti. Il messaggio infatti è per tutti gli uomini che Dio ama (cf. Lc 2,14).

L’atteggiamento di Maria, l’altra protagonista del racconto lucano, si differenzia da quello degli altri: “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”. La parola “meditare” merita qui una particolare attenzione. Nel Nuovo Testamento è usata soltanto da Luca nel suo vangelo e negli Atti. Il significato originario e fondamentale del termine è “raccogliere”, “collegare”, “mettere a confronto” eventi e parole, realtà e mistero. Viene da pensare, innanzitutto, che Maria mettesse le cose udite dai pastori in relazione con quello che le era già stato rivelato sul suo bambino. E’ poi probabile che ella collegasse questi fatti con quello che i padri e i profeti avevano detto nella Scrittura. Maria custodiva tutte queste cose non nella mente, ma “nel cuore”, cioè nel luogo più segreto e interiore della persona, là dove lo spirito prende contatto con le cose di Dio, le riconosce e le conserva incancellabili. Ecco quindi che Maria vive una magnifica esperienza di ascolto, rendendosi disponibile in un crescendo di fede e di comprensione del mistero della salvezza in Gesù, a tutte le mediazioni autorevoli, anche nella loro apparente irrilevanza e umiltà; fino a farsi ascoltatrice della Parola viva del suo figlio Gesù. Fin d’ora Maria è il tipo di ogni vero uditore della parola di Dio. Maria è la “vergine dell’ascolto sapienziale” perché, come il sapiente biblico, ricorda quanto Dio le ha donato di vivere, medita per riconoscere negli eventi vissuti i segni della misericordia divina, di cui ci parla san Paolo nella seconda lettura della messa.

In questo mattino di Natale, anche noi siamo invitati a fare proprio come i pastori: andare, trovare, vedere, riferire sono i verbi dell’accoglienza e della testimonianza. La loro esperienza, le loro azioni altro non sono che l’immagine viva di quello che significa credere nel Signore Gesù. Come Maria, anche noi siamo invitati a contemplare il mistero del Verbo fatto carne, conoscere con la fede la profondità del mistero e viverlo con amore intenso e generoso (cf. preghiera dopo la comunione).


NATALE DEL SIGNORE – 25 Dicembre 2017
Messa del giorno


Is 52,7-10; Sal 97 (98); Eb 1,1-6; Gv 1,1-18

Tra le letture bibliche della Messa del giorno di Natale, emerge lo splendido brano della prima pagina del vangelo di Giovanni, testo sobrio e solenne al tempo stesso, di profonda dottrina cristologica, vero antidoto contro ogni eventuale lettura sentimentale, fatua e consumistica del mistero natalizio. Oggetto dei 18 versetti del prologo giovanneo è Gesù Cristo, colto nelle sue diverse dimensioni.

Anzitutto meritano una particolare attenzione le prime battute del prologo: “In principio era il Verbo…” Il termine “principio” è accompagnato dal verbo essere al tempo imperfetto (“era”). In questo modo, Giovanni intende affermare che una realtà sussiste indipendentemente dai condizionamenti imposti dal decorrere del tempo. Infatti quando l’evangelista vuole significare la delimitazione temporale utilizza i verbi “essere fatto” per dire che una cosa ha avuto inizio in un determinato momento, e “diventare” per alludere a qualche aspetto della mutabilità. Ecco quindi che l’espressione giovannea intende dire che il Verbo era precedentemente all’esistere del tempo, all’ “in principio” in cui l’esistente ha preso inizio, dunque da sempre, dall’eternità. In questo modo, Giovanni ci mostra che il Cristo ingloba in sé non solo l’orizzonte dell’antica Alleanza ma anche quello della creazione.

Questo “Verbo” eterno “si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. “Carne”, senza ulteriori specificazioni, non significa semplicemente uomo, ma l’uomo legato alla terra, debole e caduco. Si direbbe che Giovanni intenda sottolineare tutta la diversità e distanza fra il divino e l’umano. Il Verbo che era “presso Dio” ora è “fra noi”, non solo vicino a noi ma pienamente partecipe della nostra umanità. Nel linguaggio biblico “carne” non significa il corpo dell’uomo contrapposto allo spirito, ma l’uomo intero colto nella sua caducità, nella sua debolezza, nel suo essere consegnato alla morte. Possiamo quindi affermare che il cosmo e la storia, lo spazio e il tempo, le cose e l’uomo, l’essere tutto acquistano nel mistero dell’Incarnazione un senso perché in essi si inserisce il Verbo eterno di Dio.

Qual è l’atteggiamento dell’uomo dinanzi a questo mistero? Giovanni afferma che il Verbo “venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio…” Dinanzi a questo mistero la reazione è duplice: il rifiuto aggressivo o l’accoglienza fedele. Giovanni qualche versetto prima usa l’espressione: “il mondo non l’ha riconosciuto”. “Riconoscere” e “accogliere” sono due verbi importanti che il seguito del vangelo di Giovanni chiarisce. Riconoscere non è solo ascoltare la parola di Gesù e neppure solo capirne il senso, ma comprendere che le sue parole provengono dal Padre (cf. anche la seconda lettura). Si tratta quindi di riconoscere, ascoltando le parole e vedendo i segni da lui compiuti, che Gesù è il Figlio che viene dal Padre: è dunque il mistero della persona di Gesù, la sua origine, che va compresa e riconosciuta. E accogliere implica apertura, disponibilità e sequela.

Nella colletta della messa, riallacciandoci al v. 12 del prologo, chiediamo a Dio che “possiamo condividere la vita divina di suo Figlio, che oggi ha voluto assumere la nostra natura umana”.