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domenica 23 novembre 2025

QUALE EUCARISTIA?

 



Thomas O’Loughlin, Quale Mensa per noi tu prepari! L’Eucaristia como evento che plasma un popolo, Queriniana, Brescia 2025. 90 pp. (€ 14,00).

In questo libro O’Loughlin libera l’eucaristia dallo spazio chiuso dei tabernacoli e dai polverosi scaffali delle biblioteche. Sempre rispettoso, riesce a collocare il corpo di Cristo sulla mensa delle nostre case, perché possiamo condividerlo in particolare con quanti vivono in situazioni svantaggiate o di rifiuto.

L’eucaristia non è infatti un oggetto statico di adorazione, bensì un rendere grazie senza tempo, un banchetto imbandito dal Dio di Gesù al quale ognuno può trovare posto. Questa meditazione ci nutre e ci ricorda con la sua freschezza che è il popolo di Dio ad essere chiamato a celebrare il proprio mistero di fede. Eucaristia dunque è un verbo, più che un nome: è l’azione semplice e potente di “condividere un pezzo di pane”. O’Loughlin ce ne illustra le implicazioni dirette per tanti aspetti della nostra vita: dalla costruzione di una comunità alla giustizia alimentare. È prendersi cura uno dell’altro e accogliere gli altri alla stessa mensa come fratelli e sorelle.

(Quarta di copertina)

venerdì 21 novembre 2025

DOMENICA XXXIV DEL TEMPO ORDINARIO (C) – 23 Novembre 2025 NOSTRO SIGNORE GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO

 



 

 

2Sam 5,1-3; Sal 121 (122); Col 1,12-20; Lc 23,35-43

 

L’anno liturgico si chiude con questa domenica, dedicata a Cristo re dell’universo, chiave di lettura del mondo e della storia. In concreto, la solennità odierna propone la regalità di Cristo nella sua luce biblica e non in quella sociologica. Bisogna quindi evitare le ambiguità che hanno talvolta caratterizzato questa festa in un passato non lontano. Il dominio regale di Cristo si esercita sull’universo e sugli individui piuttosto che sulle società. Infatti, le letture bibliche insistono sull’aspetto escatologico, e cioè ultraterreno e spirituale della regalità di Cristo. “Il Regno non si compirà attraverso un trionfo storico della Chiesa secondo un progresso ascendente, ma attraverso una vittoria di Dio sullo scatenarsi ultimo del male” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 677).

 

La prima lettura narra l’unzione di Davide consacrato a re d’Israele. La figura di Davide prefigura quella di Cristo, l’Unto per eccellenza (cf I Vespri, ant. Al Magn.). La dimensione universale e cosmica della regalità di Cristo è celebrata in modo particolare nell’inno della Lettera ai Colossesi che ci viene proposto come seconda lettura: “Tutte le cose sono state create per mezzo di lui [Cristo] e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono”. Tra l’inno paolino e la descrizione della crocifissione di Gesù corre un abisso, a prima vista inconciliabile. Infatti, il brano del vangelo ci ricorda che Gesù esercita il suo dominio non tramite la forza, ma nella debolezza della croce. Il potere che Cristo rivendica sull’uomo non è di mondana potenza, ma proposta di valori liberanti, ai quali chiede un’adesione libera e personale promettendo a colui che li accoglie, come al buon ladrone del vangelo, la partecipazione al suo regno: “oggi con me sarai nel paradiso”.

 

Il regno di Cristo si stabilisce in “ogni creatura, libera dalla schiavitù del peccato” (colletta). Se vogliamo quindi che Cristo re eserciti il suo potere sul mondo, dobbiamo anzitutto far sì che il suo regno si stabilisca dentro di noi, nelle profondità del nostro essere, da dove prende origine la nostra espressione, la nostra parola, le nostre opere e il nostro dinamismo interiore. Cristo regna nei nostri cuori quando “viviamo secondo la verità nella carità e cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di Cristo” (Lodi mattutine, lettura breve: Ef 4,15).

 

La celebrazione eucaristica anticipa in noi i doni del regno di Dio. Già nell’Antico Testamento la comunione tra Dio egli uomini, che caratterizzava l’avvento definitivo del Messia e del suo regno, viene rappresentata con l’immagine di un banchetto sacro al quale il Dio di Israele inviterà tutti i popoli (Is 25,6-10). Questa immagine è ripresa anche dal vangelo nella parabola del banchetto nuziale (Mt 22,1-4; Lc 14,16-24) e in quella delle dieci vergini (Mt 25,1-13; Lc 12,35-38).

domenica 16 novembre 2025

L’ESPERIENZA DEL RITMO

 



 

L’esperienza del ritmo implica movimento, impulso, differenziazione, vitalità, forma riconoscibile. Ci appare non come una cosa tra le cose, ma come una qualità che è data dalla loro relazione. Come scriveva Marius Schneider, “il ritmo è una articolazione qualitativa, non quantitativa, del tempo e dello spazio. Oscillando nella ripetizione continua, esso ruota intorno a un centro inafferrabile, che però è il punto focale della relazione che si stabilisce fra due qualità o due individui, premesso che ciascuna qualità è chiaramente caratterizzata e, di conseguenza, permette all’altra di esprimersi […] Nella sua ultima astrazione, il ritmo è il modo più profondo della vita spirituale”.

Effettivamente, l’esperienza del ritmo non è legata solo alla musica, ma è molto più ampia, profonda e pervasiva; perciò, è anche difficile da definire in modo esaustivo. Sperimentiamo il ritmo nella periodicità dei fenomeni cosmici, nella ciclicità della natura, nella vitalità del mondo biologico, nelle ricorrenze delle storie che viviamo. Inoltre, l’essere umano stesso è in grado, in qualche misura, di dare un certo ritmo alla sua esistenza, ai suoi gesti, alle sue “creazioni” (si pensi in particolare alle creazioni artistiche). L’esperienza qualitativa del ritmo, che è nelle cose ma non coincide con esse, ha un che di misterioso e inafferrabile, ma anche molto reale, nel suo farci sentire in armonia e in un equilibrio dinamico dentro di noi e con l’ambiente esterno.

Attraverso queste esperienze ritmiche noi possiamo percepire una qualità del tempo e dello spazio, conosciamo e ri-conosciamo il nostro mondo e noi stessi in esso. Sentiamo l’impulso della vita, che emerge sulla piattezza dell’amorfo e dell’apatico, e percepiamo una forma del mondo. Il ritmo può permeare qualsiasi aspetto della vita fisica e spirituale, incrocia natura e cultura. Esso dice insieme differenza e relazione, distanza e collegamento, tempo e eternità. È pensabile che anche la dimensione religiosa, aperta alla trascendenza, sia caratterizzata da un modo ritmico di abitare il mondo che ce lo riveli sotto una luce nuova.

 

Fonte: Luigi Girardi (a cura di), Rito e ritmo. Celebrare la differenza (Caro salutis cardo. Contributi 40), Roma –Padova 2025, pp. 6-7.

 

venerdì 14 novembre 2025

DOMENICA XXXIII DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 16 Novembre 2025

 



 

Ml 3,19-20a; Sal 97 (98); 2Ts 3,7-12; Lc 21,5-19

 

 

La fine del mondo e il giudizio universale, temi che ci propone oggi la parola di Dio, sono da considerarsi come un giorno di festa in cui Dio viene a stabilire definitivamente la giustizia. Dopo le severe parole di Gesù che abbiamo ascoltato nel vangelo, può sembrare fuori posto questa affermazione.

 

Invece questo giorno, che la Bibbia chiama “giorno del Signore”, è descritto dalla prima lettura come “un giorno rovente come un forno”, in cui Dio annienterà i superbi e gli ingiusti, ma salverà coloro che hanno timore del suo nome, e cioè quelli che servono Dio con fedeltà. Per questi “sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia” (cf anche I Vespri, ant. al Magn). Il vangelo raccoglie le parole di Gesù sulla fine del Tempio di Gerusalemme. E quando gli chiedono: “Signore, quando accadrà questo…?”, Gesù non risponde, ma prende l’occasione per portare l’attenzione dei suoi discepoli sugli ultimi tempi, di cui ne rivela l’incertezza del giorno e dell’ora. In attesa del compimento della vicenda terrena, ci viene dato come codice di comportamento l’esortazione di san Paolo ai cristiani di Tessalonica: in attesa del trionfo della giustizia, in attesa che il male sia vinto, l’Apostolo ci invita a vivere la nostra vita nella pace lavorando, cercando di non essere di peso agli altri, guadagnandoci così il nostro destino. Questa esortazione coincide con l’affermazione di Gesù che conclude il discorso sulla fine dei tempi con queste parole: “Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime” (II Vespri, ant. al Magn.).

 

La perseveranza è frutto della grazia, è frutto dello Spirito, ma è anche risposta coerente e quotidiana della nostra volontà al dono di Dio. La vita cristiana non è passiva attesa di doni che piovono dal cielo; è invece ricerca appassionata, impegno generoso che si traduce in un concreto sforzo per testimoniare la giustizia e la salvezza di Dio. In questo mondo siamo di passaggio. Tante volte invece le realtà terrene ci si offrono in tutta la loro forza seducente, in modo che non è facile mantenersene liberi. Il nostro sguardo deve rivolgersi verso quei beni che ci procurano “felicità piena e duratura” (colletta). A questo proposito, sant’Agostino dice che il cristiano deve “servirsi del mondo, non farsi schiavo del mondo” (Ufficio delle letture, 2a lettura). Dio ha progetti di pace su di noi, non progetti di sventura (cf ant. d’ingresso, Ger 29,11). Infatti, dopo le severe parole di Gesù, abbiamo ascoltato che egli afferma: “Nemmeno un capello del vostro capo perirà”. Pertanto, il linguaggio immaginoso che usa la Scrittura per descrivere il giorno finale non deve incutere paura. Non serve vivere in attesa ansiosa e oziosa del futuro. L’attesa cristiana si chiama speranza, la quale non è né ansiosa né oziosa ma attiva. La vita è amministrazione di un dono che ci è stato affidato, quindi è responsabilità. Bisogna prendere sul serio il tempo presente. Siamo chiamati non all’evasione dal mondo, ma a costruire qui e ora le premesse che preparano l’avvento definitivo del regno di Dio.

 

Il Signore che verrà alla fine dei tempi come giudice è realmente presente nell’Eucaristia sotto gli umili segni sacramentali del pane e del vino. Nell’Eucaristia quindi è racchiusa e già in atto la beata speranza che alimenta l’attesa e il desiderio della Chiesa e di ogni credente nel ritorno del Signore. Perciò possiamo gridare ai quattro venti con gli antichi cristiani: “Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,20).

 

domenica 9 novembre 2025

RITO E RITMO

 



Luigi Girardi (a cura di), Rito e ritmo. Celebrare la differenza (Caro salutis cardo. Contributi 40), CLV-Edizioni liturgiche, Roma – Abbazia di Santa Giustina, Padova 2025. 238 pp. (€ 32,00).

L’esperienza del ritmo è vasta, profonda e pervasiva. La incontriamo nei fenomeni cosmici, naturali, biologici, culturali. Il ritmo conserva e dischiude una qualità particolare della nostra esperienza, decisiva anche per la dimensione religiosa. Occorre chiedersi allora in che modo il ritmo è presente nella dinamica del rito e che cosa è in gioco attraverso di esso. Non ha forse la liturgia un proprio ritmo? Come interagire con i ritmi della vita sociale di oggi? L’arte di celebrare non è forse una questione (anche) di ritmo? Questi e altri interrogativi aprono un percorso riflessivo estremamente fecondo.

Contributi di Andrea Albertin, Giorgio Bonaccorso, Claudio Ubaldo Cortoni, Loris Della Pietra, Serena Facci, Marco Gallo, Luigi Girardi, Paolo Tomatis, Lorenzo Voltolin.

venerdì 7 novembre 2025

DEDICAZIONE DELLA BASILICA LATERANENSE – 9 Novembre 2025

 



 

Ez 47,1-2.8-9.12; Sal 4 (46); 1Cor 3,9c-11.16-17; Gv 2,13-22.

La lettura evangelica ci ricorda che Gesù è il nuovo tempio: “Egli parlava del tempio del suo corpo”. In Lui Dio si è fatto carne ed è venuto a piazzare la sua tenda in mezzo a noi. Come dice san Paolo, noi siamo membra vive del corpo di Cristo, quindi anche noi siamo “tempio di Dio”. I templi fatti dalla mano dell’uomo sono al servizio del tempio di pietre vive, non fatto dalla mano dell’uomo; come dice il prefazio della messa, la “Chiesa è significata dalle chiese che edifichiamo”. Questa dottrina acquista un particolare significato nel giorno della dedicazione della basilica di San Giovanni in Laterano, la cattedrale del vescovo di Roma, che “sovrintende alla carità” (sant’Ignazio di Antiochia) di tutte le Chiese locali e perciò viene chiamata anche “Chiesa madre di tutte le chiese”. Celebrando dunque questa festa, ricordiamo innanzitutto che siamo in comunione gli uni con gli altri, nonostante le diversità, e tutti siamo in comunione con il papa, vescovo di Roma.

Anche se ogni vescovo esercita il suo ministero di santificazione e di culto in tutta la diocesi, la cattedrale è il luogo proprio in cui egli svolge le funzioni di grande sacerdote del suo gregge, il luogo dove proclama la Parola e presiede le celebrazioni sacramentali, in particolare l’eucaristia. Da una parte, la Chiesa, come sacramento o segno e strumento della presenza della salvezza offerta in Cristo, ha bisogno di realizzarsi e rendersi visibile in un luogo concreto. D’altra parte, la liturgia è un’azione che si svolge necessariamente nell’ambito spazio-temporale. Ciò la rende, di fatto, manifestazione del mistero della Chiesa, rappresentata nella comunità riunita e presieduta dai suoi pastori.

La dedicazione della chiesa cattedrale può essere interpretata alla stregua di una iniziazione cristiana dell’edificio che rappresenta la comunità dei fedeli. Infatti, così come “con i sacramenti dell’iniziazione cristiana, il battesimo, la confermazione e l’eucaristia, sono posti i fondamenti di ogni vita cristiana” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1212), così anche la dedicazione dell’edificio ecclesiale sta a significare la consacrazione di una Chiesa particolare. In questo senso, l’anniversario della dedicazione della chiesa cattedrale, che deve celebrare l’intera comunità diocesana, è come l’anniversario del battesimo dell’intera comunità cristiana e, in definitiva di un popolo santificato con la Parola e i sacramenti, chiamato a crescere e a svilupparsi, in analogia con il corpo umano, fino a raggiungere la misura di Cristo in pienezza (cf. Ef  4,13-16). Nell’Ufficio delle letture del Comune della dedicazione di una chiesa, la Liturgia delle Ore ci propone un brano tratto da un discorso di sant’Agostino, in cui il santo vescovo d’Ippona afferma, tra l’altro: “La dedicazione della casa di preghiera è la festa della nostra comunità. Questo edificio è divenuto la casa del nostro culto. Ma noi stessi siamo casa di Dio. Veniamo costruiti in questo mondo e saremo dedicati solennemente alla fine dei secoli…”

La preghiera dopo la comunione, dopo aver affermato che la Chiesa è il segno visibile della Gerusalemme celeste, chiede al Signore che ci “trasformi in tempio vivo della sua grazia perché possiamo entrare nella dimora della sua gloria”.

domenica 2 novembre 2025

LA GIOIA IN UNA ESPERIENZA RELIGIOSA

 



 

Non c’è forse una gioia che non sia, o che possa non essere, anche esperienza religiosa, e di questa vorrei ora dire qualcosa che possa rimanere nel cuore, e nella memoria di chi voglia leggere queste mie considerazioni, nutrite di psichiatria, ma anche dei pensieri di sant’Agostino e di santa Teresa d’Avila, di Blaise Pascal e di santa Teresa di Lisieux, di madre Teresa di Calcutta e di Dietrich Bonhoeffer, il grande teologo protestante che fu recluso in un carcere berlinese e poi  condotto alla morte, a trentanove anni, nel campo di concentramento di Fossenbürg. Ho già richiamato le sue parole vibranti perché le cose che egli ha scritto sulla gioia sono di una straordinaria bellezza, e sono animate da una fede e da una speranza luminose e incancellabili.

Ascoltiamole ancora, quando la tristezza e l’angoscia scendono in noi: “Come possiamo aiutare chi non ha la gioia e si è perso di coraggio, se noi stessi non abbiamo gioia né coraggio?” E ancora: “In Dio abita la gioia e da lui essa discende prendendo spirito, anima e corpo, e dove questa gioia ha afferrato l’uomo lì essa si propaga e diviene trascinante, lì spalanca porte chiuse”; e un suo ultimo pensiero: “C’è una gioia che non sa niente del dolore, della miseria e dell’angoscia del cuore; essa non ha consistenza, e vale soltanto per dei momenti. La gioia di Dio è passata per la povertà della mangiatoia e la miseria della croce; per questo è insuperabile, inconfutabile”. Alla gioia, mirabilmente descritta da Bonhoeffer, dovremmo sempre guardare come a una stella cometa che non si spenga mai.

La gioia sconfina nella preghiera, e ci fa uscire dai limiti aridi del nostro egoismo, aprendoci agli sconfinati orizzonti della relazione con Dio, e con gli altri, nel contesto di una gioia che non morirà. Madre Teresa di Calcutta diceva alle sue consorelle che ogni missionaria della carità avrebbe dovuto essere testimone di una gioia da far risplendere negli occhi, negli sguardi, nel volto e nelle azioni. Così, tutti, e in particolare i poveri e i sofferenti, avrebbero riconosciuto la presenza della gioia in lei, e nelle sue consorelle. Le parole di madre Teresa: “La gioia è preghiera, è il segno della nostra generosità, del nostro altruismo, dell’unione intima e continua con Dio”. Non dovremmo mai dimenticarlo.

 

Fonte: Eugenio Borgna. Con un ricordo di Vittorio Lingiardi (Vele 23), Giulio Einaudi editore, Torino 2025, pp. 34-36.  

 

venerdì 31 ottobre 2025

COMMEMORAZIONE DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI – 2 Novembre 2025 1° formulario di Messa


 


 

Gb 19,1.23-27°; Sal 26 (27); Rm 5,5-11; Gv 6,37-40

 

L’intero formulario della Messa è improntato alla “speranza che i tuoi fedeli risorgeremo a vita nuova” (colletta). La speranza cristiana è essenzialmente speranza di fronte alla morte.

Nella prima lettura, Giobbe, a metà del suo tempestoso contendere con Dio, intravede un barlume di speranza. Egli, intuendo che il Dio vivente è della sua parte, fa un atto di fede nella risurrezione: “Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! […] e i miei occhi lo contempleranno”. Chi sia il “redentore” di cui parla Giobbe, lo illustrano le altre due letture. Nel secondo brano biblico, san Paolo afferma che “la speranza non delude” Infatti se quando eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi, può perderci ora che siamo stati da lui “riconciliati” con Dio?. Il brano evangelico conferma che chi crede nel Figlio di Dio ha la vita eterna, ed egli lo risusciterà nell’ultimo giorno. Su questa linea, i cinque prefazi dei defunti esaltano la speranza nella vita futura fondata sulla risurrezione di Cristo. La morte acquista tutto il suo significato solo se riportata alla dimensione e illuminazione cristologica.

Siamo abituati a ricordare in questo mese autunnale di novembre i nostri cari defunti. Nonostante la morte e al di là di essa, noi speriamo che la vicenda storica dell’uomo su questa terra avrà una conclusione positiva. Ci attende non il vuoto, non il nulla, ma l’incontro definitivo con il nostro Redentore. Per il cristiano la morte è una nuova nascita: “come in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita” (antifona d’inizio; cf. 1 Cor 15,22). Con la morte cadono tutti i limiti della nostra condizione terrena per essere liberi pienamente e definitivamente nella totalità della nostra esperienza, portando con noi la nostra storia che in qualche modo ritroveremo in Dio. Con la preghiera del salmo responsoriale, abbiamo esclamato: “Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”. Sono immagini con cui la Bibbia esprime la beatitudine eterna a cui siamo tutti chiamati.

Il mistero della morte, che si è compiuto nei nostri congiunti, ci invita ad approfondire il senso della vita da cui la morte ricava significato. Tutti abbiamo bisogno di un qualche punto di riferimento, nessuno può vivere senza ideali, senza valori di riferimento. Alla luce di questi ideali cerchiamo di dare un senso alla vita. Per il cristiano, Cristo e il suo vangelo rappresentano l’ideale a cui far riferimento. La vita presente prepara quella futura e definitiva. Nell’aldilà ritroveremo ciò che abbiamo seminato qui. Il pensiero della morte è salutare quando ci incoraggia ad una vita vissuta consapevolmente, quando ci aiuta a non disperdere i doni di Dio che sono in noi. 

 

giovedì 30 ottobre 2025

TUTTI I SANTI – 1° novembre 2025

 



 

Ap 7,2-4.9-14; Sal 23 (24); 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12a

         

Il Sal 23, nella sua prima parte riportata dal salmo responsoriale odierno, è un cantico di pellegrinaggio e riflette una situazione storica ben concreta. Giunti nella prossimità del tempio di Gerusalemme, i pellegrini si pongono la domanda: “Chi potrà salire il monte del Signore? Chi potrà stare nel suo luogo santo?”. La risposta è categorica: “Chi ha mani innocenti e cuore puro”. I cristiani possiamo riprendere le parole del salmo perché pure noi siamo in cammino, pellegrini verso il luogo santo, verso la dimora del Signore, verso “la città del cielo, la santa Gerusalemme che è nostra madre” (prefazio). Ricuperando e attualizzando il messaggio del salmo, la Chiesa ribadisce che saranno ammessi all’assemblea festosa della gloria e vedranno Dio “i puri di cuore”. 

 

La prima lettura, tratta dall’Apocalisse, propone due visioni di san Giovanni: nella prima, contempliamo la schiera dei santi che si trovano ancora nel tempo del loro pellegrinaggio terrestre; nella seconda, vediamo la moltitudine di quelli che già godono della gloria eterna. Il numero degli eletti è simbolico, ad indicare la pienezza: centoquarantaquattromila, il quadrato di dodici moltiplicato per mille. Esso ha inoltre il carattere dell’universalità; infatti, gli eletti o “segnati con il sigillo” provengono da “ogni nazione, tribù, popolo e lingua”. Nel brano del vangelo viene proclamata una pagina centrale del messaggio di Gesù, il programma di vita che egli propone a coloro che intendono seguirlo: le Beatitudini. È un programma impegnativo; un progetto costruito non secondo i valori del mondo e le possibilità di successo ad essi collegate ma secondo i valori di Dio e i doni che da lui ci vengono offerti gratuitamente. La santità è, come in Cristo, donazione totale dell’essere nella “povertà”, cioè nell’apertura dell’essere intero a Dio, al suo regno e al prossimo.

 

La santità non è impresa per pochi eroi: tutti “siamo chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità” (Lumen Gentium, n. 40). Il traguardo della santità è per tutti perché, come dice san Giovanni nella seconda lettura, tutti siamo stati oggetto dell’amore di Dio. Infatti, la santità è anzitutto il dono di Dio che ci ama e ci si dona nel suo proprio Figlio. Il progetto del Padre è che noi siamo simili all’immagine del Figlio suo Gesù Cristo. In ciascuno di noi è quindi presente il germe della santità; compito nostro è svilupparlo in pienezza per la vita eterna. Al traguardo della santità ci si arriva attraverso un impegno costante, come ricorda san Giovanni: “Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli - cioè Gesù - è puro”. In modo simile, san Paolo afferma: “purifichiamoci da ogni macchia della carne e dello spirito, portando a compimento la nostra santificazione, nel timore di Dio” (Secondi vespri, lettura breve: 2Cor 7,1).

 

Nel Credo professiamo la fede nella “comunione dei santi”. La solennità odierna celebra i santi appunto come nostri “amici e modelli di vita” (prefazio). Cristo è l’archetipo di ogni santità, il santo per eccellenza, anzi il “solo santo”. Coloro che noi chiamiamo santi sono quindi tali nella misura in cui si identificano con Cristo. Nei santi noi possiamo contemplare realizzata in modo multiforme ed esemplare l’immagine di Cristo ed in essi abbiamo degli amici che ci proteggono nel nostro pellegrinaggio e intercedono perché anche noi possiamo raggiungere l’ambito traguardo. 

         

L’eucaristia è la sorgente di ogni santità e il nutrimento spirituale “che ci sostiene nel pellegrinaggio terreno” verso il traguardo (orazione dopo la comunione).

domenica 26 ottobre 2025

UN RUOLO FEMMINILE NELLA LITURGIA FUNEBRE?

 



 

Il rapporto ritualizzato delle donne con la morte altrui è vicenda antica. Lo si trova in tempi e luoghi remoti. Il pianto e il lamento rituali erano pratiche comuni.

Si legge in Ezechiele: “Mi condusse alla porta del tempio del Signore che guarda a settentrione e vidi donne sedute che piangevano Tammuz” (Ez 8,14). In questo caso si tratta di una azione idolatrica, ma riflette un fatto comune in quella società. Nel mondo mediterraneo il threnos greco, le lamentazioni romane e i molti esempi folklorici prolungatisi nel tempo riservarono un ruolo rilevante alle donne: le matrici di vita non potevano restare estranee ai riti che accompagnavano la fine dell’esistenza.

In altre aree del mondo, sono testimoniati costumi in cui la presenza femminile è determinante. Malinowski, nel suo volume dedicato alla Melanesia, riporta un rito in cui, tra l’altro, il cadavere del defunto, dopo essere stato lavato, unto e coperto di ornamenti, è disposto su una fila di donne sedute per terra che accarezzano il cadavere, premono oggetti preziosi sul petto e sull’addome, smuovono leggermente le sue gambe e ne scuotono la testa al ritmo delle lamentazioni.

La sepoltura di Gesù fu un atto compiuto in fretta; incombeva il tramonto e con esso il riposo del settimo giorno. Non c’era tempo per il lamento. Le donne si predisponevano a prendersi cura del corpo di Gesù. Il racconto evangelico è costruito, fin dalla sepoltura, per renderle le prime testimoni della resurrezione. Preparano gli unguenti per la morte e incontreranno la vita.

Non è azzardato concludere che la mancanza di un esplicito e ufficiale ruolo femminile nella liturgia funebre cattolica contrasta con un sentire profondo dell’umanità.

 

Fonte: Piero Stefani, Donne e sepoltura, in “Il Regno” Attualità 15.05.25, pp. 302-303. Ho fatto una brevissima sintesi del testo che vale la pena di leggere per intero.

venerdì 24 ottobre 2025

DOMENICA XXX DEL TEMPO ORDINARIO (C) – 26 Ottobre 2025

 



 

 

Sir 35,12-15b-17.20.22a; Sal 33 (34); 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14

 

Il Signore ascolta il grido dei poveri, degli umili, di coloro che hanno il cuore ferito, e li salva da tutte le loro angosce. La speranza dei poveri si compie in Cristo; san Luca fa cominciare la missione di Gesù con la citazione di Is 61,1: “mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio” (Lc 4,18).

 C’è una certa continuità tra le letture della domenica scorsa e quelle odierne; è ancora il tema della preghiera, infatti, che ritorna con insistenza, sia pure da un particolare angolo visuale, che è quello della speciale attenzione che Dio rivolge alla preghiera dell’umile e del povero. La prima lettura ci ricorda che Dio è giusto; non v’è presso di lui preferenze di persone e, quindi, non può essere né comprato, né corrotto. Davanti a lui non contano le apparenze. Egli esaudisce chi con umiltà e amore lo supplica. L’insegnamento della parabola del fariseo e del pubblicano, riportata dal vangelo, si muove sulla stessa linea: il pubblicano, che si riconosce umilmente peccatore, torna a casa giustificato; il fariseo, che si vanta delle sue opere e disprezza gli altri, non viene invece giustificato. Nella seconda lettura ascoltiamo san Paolo che, ormai al termine della sua vita, ne fa un bilancio fiducioso e sereno e si affida al Signore, giusto giudice, che gli darà la corona di giustizia. La società in cui viviamo esalta i potenti, i forti, coloro che con la loro attività hanno raggiunto denaro, sicurezza e prestigio. Sono essi ad avere successo ed a diventare i modelli a cui facciamo volentieri riferimento. Presso Dio invece è il povero, l’oppresso e l’umile che ha garanzia di successo. I criteri di valutazione appaiono rovesciati. Dio non misura con le misure umane. Egli guarda il cuore dell’uomo.            

 Il vangelo di questa domenica ci ammonisce a lasciare un po’ di spazio al Signore, a non presumere, a non pretendere, a non passare il tempo ad elencare i nostri meriti. Siamo tutti nudi davanti a Dio, tutti mendicanti. La giustificazione, cioè la salvezza, non è certo frutto della nostra giustizia, né delle nostre risorse di creature. La giustificazione è anzitutto un dono, è una grazia che viene dalla misericordia di Dio. Afferma san Giovanni che il cristiano non è figlio di Dio per nascita (Gv 1,13) ma perché è rinato, perché è stato rigenerato dall’alto mediante lo Spirito (Gv 3,5-8). Nella nostra vita tutto è dono, tutto è grazia. San Paolo riconosce che “per grazia di Dio” è quello che è (1Cor 15,10). D’altra parte, l’orazione colletta ci ricorda che per ottenere il dono di Dio, dobbiamo amare ciò che egli comanda; la giustificazione chiama in causa l’uomo che con la sua libertà è chiamato a corrispondere al dono di Dio. Infatti, la giustificazione non è un atto magico che avviene ineluttabilmente ma una azione che inserisce la nostra libertà in una situazione nuova originata dal dono di Dio.

 L’eucaristia è la mensa alla quale il Cristo invita i poveri, i piccoli e gli umili come al convito del regno di Dio (cf. Mt 5,3; Lc 6,20). Prima di avvicinarci alla comunione proclamiamo con il centurione del vangelo: “O Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa: ma dì soltanto una parola e io sarò salvato” (cf. Mt 8,8). Ma l’eucaristia è anche il massimo della azione salvifica del Risorto e la anticipazione della condizione definitiva del salvato.

 

domenica 19 ottobre 2025

LA PROSPETTIVA DI FUTURO DELLA LITURGIA

 



 

Proprio la liturgia, che era stata il primo oggetto di espressione conciliare e su cui la riforma ha lavorato a fondo, avviando processi, era diventata, prima di Francesco e durante il suo pontificato, terreno per eccellenza di resistenza al concilio. Il vero oggetto del contendere è stato espresso dallo stesso Francesco nel modo più limpido in Desiderio desideravi, al n. 31: “Sarebbe banale leggere le tensioni, purtroppo presenti attorno alla celebrazione, come una semplice divergenza tra diverse sensibilità nei confronti di una forma rituale. La problematica è anzitutto ecclesiologica”.

La resistenza alla liturgia è resistenza alla ecclesiologia. Ecco allora, nella prospettiva di futuro che si apre oggi alla Chiesa cattolica, alcune linee di sviluppo possibile.

a) La pace liturgica: i padri e i figli del concilio Vaticano II cercavano la pace. Lo hanno fatto con oscillazioni di giudizio molto grandi. Ricuperare la evidenza dello “sviluppo organico” della liturgia romana esige la resistenza a cadute ideologiche. Non vi è alcuna “messa di sempre”. Piuttosto, la messa si è sempre evoluta, secondo i tempi e le circostanze. Tutta la liturgia è. Insieme, continuità e discontinuità. Solo così resta viva e vitale, purché assuma la vita nel mistero, oltre che il mistero nella vita.

b) I simboli rituali: se la intelligenza del mistero avviene per ritus et preces, tutti i linguaggi verbali e non verbali devono essere in gioco. Le parole prendono senso del loro uso e così le azioni. Una accurata elaborazione delle traduzioni – sia delle parole sia delle azioni – tra diverse culture non ha alcunché di univoco. L’unità non è garantita da una lingua che nessuno parla e pensa più, ma da accurate traduzioni tra lingue.

c) I soggetti della azione: la graduale valorizzazione di tutti i soggetti della celebrazione richiede anche un linguaggio adeguato. Continuare a parlare, nei libri rituali, di “celebrante” per indicare “colui che presiede” costituisce la inerzia si un “canone medievale” rispetto alla nuova coscienza, espressa per esempio dal Catechismo della Chiesa cattolica, secondo cui “tutti celebrano”. Riconoscere la Chiesa come “comunità sacerdotale” avrà nel riconoscimento del sacerdozio battesimale il suo punto di svolta.

d) La custodia del mistero: infine il tratto più delicato del compito di “formazione liturgica”. Imparare a dare la parola al rito significa lasciarsi rieducare dai linguaggi più elementari: dal tatto, dal gusto, dall’olfato, dall’udito e dalla vista. La Chiesa incontra il suo Signore morto e risorto e diventa il suo Corpo se onora questa duplice richiesta: di prendere l’iniziativa, con tutta l’autorità, e di perdere l’iniziativa, rimettendo a Dio ogni autorità. La consapevolezza che tutta la sua azione prende origine e si compie su questo livello simbolico e rituale (SC 10) permette di leggere la riforma liturgica davvero come esordio di una “scuola di preghiera”. A questa idea di Paolo VI Francesco ha creduto di nuovo, aprendo il campo ad uno sviluppo promettente.

 

Fonte: Andrea Grillo, “Liturgia”, in Andrea Grillo – Luigi Mariano Guzzo (edd.), Intra Omnes. Dal popolo di Dio al conclave, Queriniana, Brescia 2025, pp. 84-89 (qui: 88-89).

venerdì 17 ottobre 2025

DOMENICA XXIX DEL TEMPO ORDINARIO (C) – 19 Ottobre 2025

 


 

Es 17,8-13; Sal 120 (121); 2Tm 3,14-4,2; Lc 18,1-8.

 

“Il mio aiuto viene dal Signore”. Così abbiamo risposto alle singole strofe del salmo responsoriale. Riprendendo le stesse parole, esprimiamo la nostra fede nella presenza del Signore alla sua Chiesa e, in essa, a ciascuno di noi. È una presenza vigile e premurosa, nella quale troviamo sempre aiuto e sicurezza. Il Signore copre con la sua vigilante protezione tutto il percorso della nostra vita, dall’uscita dal grembo materno fino all’ingresso nel grembo della terra.  

 

Anche il canto d’ingresso, preso pure esso da un salmo di fiducia, esprime le idee di fondo del salmo responsoriale e ne trae ispirazione per rivolgersi a Dio con una toccante preghiera: “Io t’invoco, o Dio, poiché tu mi rispondi; tendi a me l’orecchio, ascolta le mie parole. Custodiscimi come la pupilla degli occhi, all’ombra delle tue ali nascondimi” (Sal 16,6.8). Il brano evangelico illustra come Dio sia buono e giusto e venga in aiuto a chi lo prega con fede e con perseveranza. L’accostamento col vangelo invita a vedere nel gesto di Mosè con le mani alzate, di cui parla la prima lettura, un gesto di preghiera insistente ed efficace. Questa è poi l’interpretazione che fa del testo l’antifona al Magnificat dei Primi Vespri: “Le mani di Mosè rimasero alzate in preghiera fino al tramonto del sole”. La lettura apostolica esalta il ruolo della parola di Dio nella vita cristiana. In fine, il canto al vangelo esalta l’efficacia della parola di Dio: “La parola di Dio è viva ed efficace, discerne i sentimenti e i pensieri del cuore” (cf. Eb 4,12).

 La liturgia odierna ci invita a riflettere sull’efficacia della preghiera, in particolare di quella di supplica. Non si tratta di una efficacia meccanica, quasi che il pregare fosse un’attività magica. La preghiera è anzitutto un’esperienza profonda di fede e di fiducia in Dio. Quando Gesù ci esorta a “pregare sempre, senza stancarsi”, a “gridare” e “importunare” non intende indurci a pregare per ottenere favori casuali. Egli ci spinge a pregare perché il regno di Dio si compia, come ci ricorda il Padrenostro: “Venga il tuo regno” (Mt 6,33). Tutte le suppliche, anche quelle dirette alla propria salvezza personale, mirano in ultimo termine alla venuta del regno di Dio, nel quale la nostra individualità è inserita senza nel contempo scomparire, e il cui arrivo porta con sé il nostro essere salvati. È necessario però ricordare che il compimento del regno di Dio si attua attraverso il cammino della croce che conduce alla pasqua. La prima lettura ci insegna che preghiera e impegno debbono andare insieme: la preghiera dà all’impegno il suo riferimento essenziale a Dio, e l’impegno dà alla preghiera la sua serietà e coerenza. La preghiera non sostituisce lo sforzo quotidiano nel servire Dio con lealtà.

L’eucaristia nutre la nostra speranza, perché la Chiesa celebra l’eucaristia “finché egli venga” (1Cor 11,26). La presenza di Cristo nell’eucaristia è dinamica e ci pone nell’attesa del suo ritorno: “Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,20). Partecipando all’eucaristia viviamo già, anticipatamente e in speranza, la realtà piena di una salvezza che ora è offerta sotto il velo dei segni sacramentali e con i limiti di tutte le cose umane.

 

domenica 12 ottobre 2025

IL PADRENOSTRO (Lc 11,2-4)

 



 

Il Padrenostro è giunto a noi in due forme: quella di san Matteo (6,9-13) e quella di san Luca (11,2-4). La prima è più ampia e strutturata ed è quella che preghiamo normalmente; la seconda è più breve. La diversità fra le due versioni ci dice che i primi cristiani non erano rigidamente attaccati alle precise parole, ma alla sostanza. E difatti le parole sono diverse, ma la sostanza è uguale in tutte e due le versioni.

Matteo ha collocato il Padrenostro nel grande discorso della montagna (Mt 6,9-13), per suggerire ai cristiani come pregare, non moltiplicando le parole come fanno i pagani, bensì rivolgendosi a Dio con sobrietà e umiltà. Luca ha invece collocato il Padrenostro in un contesto ancora più bello. I discepoli vedendo Gesù che prega sono colpiti dal rapporto che intuiscono esserci tra Gesù e il Padre e desiderano entrare anch’essi in questo circuito di amore: “Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: ‘Signore, insegnaci a pregare’” (Lc 11,1). La preghiera che Gesù insegna ai suoi discepoli sgorga dalla sua preghiera personale. Il Padrenostro non è semplicemente un testo da recitare. È anche un riassunto dell’intero Vangelo e ogni sua frase deve essere accuratamente meditata e compresa.

Prendiamo il testo del vangelo di san Luca (11,1-4): “Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: ‘Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli’. Ed egli disse loro: ‘Quando pregate dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione’”.

In questo breve brano del vangelo di san Luca, ci viene trasmesso un testo tradizionale del Padrenostro più breve di quello più conosciuto riportato da san Matteo. San Luca colloca la trasmissione di questo testo nel cammino di Gesù verso Gerusalemme. Possiamo affermare che la preghiera è anche un cammino, un progetto che impegna l’intera vita dei discepoli di Gesù. Non si tratta quindi propriamente o semplicemente di una formula o di un momento rituale. Come dice un detto dei padri del deserto dell’antico Egitto: “Se il monaco prega solo quando sta in preghiera, egli non prega affatto”. La preghiera tende a farsi vita, a permeare tutta l’esistenza del credente. Tommaso da Celano, noto storico di san Francesco d’Assisi, afferma che ad un certo momento Francesco “non pregava più, era ormai divenuto egli stesso preghiera”.

Ecco perché, nelle brevi sentenze (invocazioni e suppliche) di cui si compone il Padrenostro, Gesù ha sintetizzato il programma della sua vita e della vita di tutti coloro che intendono seguirlo come discepoli; si tratta di un progetto che gira attorno a due realtà: Dio e il prossimo.

In primo luogo, Dio. San Luca indica che la nostra preghiera deve avere la stessa confidenza di quella di Gesù: l’invocazione “Padre” (priva di ogni altro aggettivo, come invece ha in san Matteo) è tipica sulle labbra di Gesù, esprime la sua filiazione divina. Possiamo rivolgerci a Dio come un figlio, chiamandolo familiarmente “Padre”, come ha fatto Gesù. La familiarità del rapporto con Dio è ricordata molte volte nel Nuovo Testamento. È infatti una nota qualificante, che segnala l’originalità cristiana.

La vera novità, però, non sta nel rivolgersi a Dio con l’appellativo di Padre. Questo avviene anche nella religione ebraica: YHWH è chiamato Padre perché è il creatore, il legislatore ed il protettore. Specifico cristiano è poter rivolgersi a Dio con lo stesso tono o modo di Gesù, figli nel Figlio, aspetto questo che Luca col suo semplice “Padre”, senza aggiunte, sembra sottolineare: ci rivolgiamo a Dio chiamandolo semplicemente “Padre”, come ha sempre fatto Gesù. “Abba” (reso anche “abbà”) è un appellativo – traducibile come “papà” – usato in ambito giudaico antico per rivolgersi in maniera informale al padre. Nel Nuovo Testamento, Gesù si riferisce a Dio utilizzando questo termine (cfr. Mc 14,36), che non ha la solennità della lingua liturgica: in sinagoga si pregava Dio dicendo “avinu” (padre nostro, in ebraico) o semplicemente “av”, ma non il familiare “abbà”, il cui utilizzo in relazione a Dio è assente nell’Antico Testamento.

La prima invocazione del Padrenostro è “sia santificato il tuo Nome”. Si tratta di un’espressione un po’ lontana dal nostro modo usuale di parlare, e richiede di essere intesa alla luce dell’Antico Testamento, in particolare di Ezechiele 36,22-29, in cui si legge, tra l’altro: “Santificherò il mio nome grande, profanato fra le nazioni, profanato da voi in mezzo a loro. Allora le nazioni sapranno che io sono il Signore… quando mostrerò la mia santità in voi davanti ai loro occhi”. Non si tratta quindi di una santificazione fatta di riti e di parole, quanto piuttosto di permettere a Dio di svelare, nella vita del singolo e della comunità, la sua potenza salvifica. Alla domanda poi in che modo noi possiamo santificare il Nome di Dio, i rabbini solevano rispondere: con la parola, ma soprattutto con la vita, quando in noi risplende qualcosa della santità di Dio.

La seconda invocazione chiede “venga il tuo regno”. È la supplica centrale. Il Regno di Dio è già presente oggi in mezzo a noi, ma è indirizzato dinamicamente verso un compimento alla fine dei tempi. Quindi è allo stesso tempo un dono e un compito, che richiede il nostro impegno per costruirlo. Preghiamo “venga il tuo Regno”, ma il Regno di Dio non è un segmento del calendario, è invece un dinamismo orientato a stabilire un nuovo rapporto tra Dio e gli uomini. Questo nuovo rapporto si è realizzato pienamente e definitivamente in Cristo Gesù, uomo e Dio. È nostro compito creare delle condizioni perché Cristo regni nel cuore di ciascuno di noi e nel cuore dei nostri fratelli e sorelle, cioè perché si stabiliscano dei rapporti di amicizia tra Dio e ciascuno di noi.  

Poi, il prossimo. Per cui e con cui siamo chiamati a impegnarci perché regni la giustizia in modo che tutto ciò che Dio ha creato sia alla portata di tutti (simbolicamente presente nella richiesta “dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano”). Si parla del pane “quotidiano”, che nel testo greco originale può significare anche il pane “necessario”. La domanda del pane rinvia anche all’episodio anticotestamentario della manna: “Mosè disse loro: nessuno ne avanzi per domani. Ma essi non ascoltarono Mosè e alcuni ne presero di più per l’indomani: sorsero dei vermi e si corruppe” (Es 16,19-21). La lezione del miracolo della manna non è soltanto la fiducia nel dono di Dio, che ogni giorno pensa al suo popolo, ma anche - e forse ancora di più - la proibizione dell’accumulo: si deve soltanto raccogliere il cibo che basta per un solo giorno. L’accumulo imputridisce.

Come conclusione di quanto detto riporto l’intelligente preghiera di un antico saggio, che si legge nel libro dei Proverbi: “Due cose ti chiedo, non negarmele prima che io muoia: allontana da me falsità e menzogna, non darmi povertà o ricchezza, ma fammi gustare il mio pezzo di pane, perché, saziato, non abbia a insuperbire e dica: chi è il Signore? Oppure, trovandomi in povertà, non rubi e bestemmi il nome del mio Dio” (30,7-9).

Il cristiano che recita il Padrenostro prega al plurale, chiede il pane comune, il pane per tutti, non soltanto per se stesso. Questo tratto rinvia all’esempio della prima comunità di Gerusalemme, di cui parla Luca nel libro degli Atti degli Apostoli. Due volte Luca precisa che “avevano tutto in comune” (2,44; 4,32). Da notare in questa domanda la sobrietà e allo stesso tempo la dimensione comunitaria.

La quarta domanda chiede il perdono dei peccati: “perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore”. Col prossimo possono sorgere attriti, differenze, scontri e contraddizioni, però dobbiamo essere sempre disposti a sanarli attraverso il perdono perché anche noi abbiamo bisogno del perdono di Dio. Luca ha cambiato il termine “debito” che ai greci non sarebbe apparso nel suo significato religioso (la metafora del debito per indicare il peccato è di uso ebraico, non greco), conservando però il termine per indicare il perdono al prossimo. Si noti che Luca è più chiaro di Matteo nel dire che il perdono di Dio precede al nostro: “perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore”.

Il Padrenostro si conclude con la supplica: “non abbandonarci alla tentazione”. L’anteriore traduzione del Padrenostro diceva: “Non ci indurre in tentazione”.  Nella lettera di Giacomo si legge: “Nessuno, quando è tentato, dica: ‘Sono tentato da Dio’; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno. Ciascuno piuttosto è tentato dalle proprie passioni…” (Gc 1,13-14). Non è Dio che ci conduce alla tentazione, ma solo – se mai – la permette. Ricordiamo il caso di Giobbe 1,12. Ma quale tentazione? San Luca adopera qui la stessa parola adoperata nel racconto delle tentazioni di Gesù nel deserto che, per l’evangelista è la tentazione cosiddetta messianica, tipica tentazione che insidia sempre la Chiesa e tutti noi. È la tentazione di svolgere il proprio compito secondo la parola di Dio (cioè in una prospettiva di servizio accettando anche la Croce) oppure essere tentato di cercare piuttosto sicurezze nella potenza degli uomini. Possiamo aggiungere che tentazione è tutto ciò che può appesantire il nostro cuore così che la parola di Dio viene soffocata: tentazioni sono le prove quotidiane che, alla lunga, logorano il coraggio iniziale. Chiediamo di essere liberati da tutto questo. Non chiediamo di essere esenti dalla tentazione, ma di essere aiutati a superarla.

Per noi battezzati il Padrenostro rappresenta un punto di riferimento di ogni preghiera e dell’intera nostra vita. Un Padrenostro ben pregato ogni giorno nutre la nostra vita di fede, quella fede che abbiamo ricevuto come dono nel battesimo. È tradizione molto antica pregare il Padrenostro tre volte al giorno. Così afferma la Didachè, un documento della metà del secolo II: dopo riprodurre il testo del Padrenostro, dice: “Così pregherete tre volte al giorno” (VIII, 3). Tradizione che la liturgia romana conserva: lo preghiamo alle Lodi, ai Vespri e nella santa Messa. In tutti i tre casi si tratta di una preghiera “comunitaria”, rivolta a Dio dall’intera comunità celebrante.

 

 

venerdì 10 ottobre 2025

DOMENICA XXVIII DEL TEMPO ORDINARIO (C) – 12 Ottobre 2025

 



2Re 5,14-17; Sal 97 (98); 2Tm 2,8-13; Lc 17,11-19

 

La prima lettura ci riferisce della guarigione di Naamàn, un ufficiale siro non appartenente al popolo di Israele, che riconosce l’opera della salvezza compiuta dal Signore in lui. Il brano della lettera a Timoteo riporta la testimonianza di san Paolo in catene per il vangelo, che esclama: “sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza”. In fine, il vangelo racconta che dei dieci lebbrosi guariti da Gesù solo un samaritano, uno straniero, dopo la guarigione, torna indietro a ringraziare il Signore che gli dice: “La tua fede ti ha salvato”. Il messaggio è chiaro: anche gli “esclusi” ed i “non privilegiati”, come i lebbrosi e gli stranieri sono chiamati a godere dei benefici della salvezza

 Il vangelo “è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede” (Rm 1,16). Tutti sono chiamati alla fede e quindi alla salvezza. Diciamo di vivere nel tempo della globalizzazione. I nostri problemi sono i problemi degli altri, vicini e lontani. I moti migratori fanno sì che le nostre città siano diventate sempre più eterogenee, multirazziali. Parliamo di “extracomunitari”, ma in fondo sappiamo che tutti siamo membri di una grande e unica comunità umana. Il momento storico che stiamo attraversando può divenire il grande segno che Dio chiama tutti a creare un mondo riconciliato, unito nella diversità, armonioso e pacifico, in cui uomini e donne di diverse razze e popoli si ritrovino tutti fratelli e sorelle, figli e figlie di Dio e riconoscano in Gesù Cristo il loro Salvatore. Se la salvezza è per tutti i popoli, dobbiamo guardare i fenomeni odierni con serenità e aprirci alla speranza. Al di là dei problemi che possa creare l’attuale situazione, il cristiano deve saper scorgervi il disegno salvifico di Dio. Chiudersi in se stessi egoisticamente non è da credenti. Con questi nostri fratelli “non ci stanchiamo mai di operare il bene” (colletta), quel bene che diventa segno del bene supremo della salvezza che Dio offre a tutti.

 
L’eucaristia è espressione perfetta della nostra fede. Essa ha quindi una dimensione ecumenica e missionaria. Nell’eucaristia entriamo in comunione con Cristo che ha dato se stesso per noi e per tutti gli uomini fino al sacrificio di sé. Inoltre, partecipando al sacrificio eucaristico rinsaldiamo la nostra unità come Chiesa: “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane” (1Cor 10,16-17). Analogamente, forti dell’amore del Signore che ci viene offerto e comunicato, siamo chiamati a fare dono di noi stessi ai nostri simili per ricreare un tessuto di solidarietà e di comunione nella nostra società.

 

domenica 5 ottobre 2025

LA STRUTTURA DELL’OMELIA

 



 

La vita della fede è analoga alla vita biologica. E la vita biologica ha un suo statuto tripartito. Nella vita biologica abbiamo tre fasi: una fase è l’innesco (e la conseguente gestazione); abbiamo l’infanzia (che è un processo di autonomizzazione); e poi abbiamo la vita adulta (caratterizzata di autonomia e fecondità).

Prima di tutto alla base c’è una fase kerygmatica, dove c’è da innescare la fede. Iniziare, avviare la fede. C’è poi una fase propriamente formativa, educativa, che è il tirar fuori, e-ducere, far crescere, e appunto condurre all’autonomizzazione. E quindi deve arrivare la fase paterna, dove si diventa capaci di generare la vita secondo la fede negli altri.

Se ho davanti un’assemblea cristiana, per forza di cose ho davanti me questi tre tipi di persone […]. Se io offro una predicazione kerygmatica, forse aiuto i primi, ma non sono pertinente per gli altri. Come fare? In primis devo riconoscere il kerygma della Parola, trovare qual è l’annunzio nascosto della Parola. Secondo punto: devo afferrare il come di questo kerygma, cioè come si entra in quell’annunzio. Qual è la strada. Terzo punto: il perché. Perché quel kerygma è importante.

Se io annunzio il kerygma, con questa prima fase coinvolgerò i primi. Con queste altre fasi includerò gli altri. Io devo spiegare qual è l’annunzio, ossia qual è la salvezza, e poi come si entra e quindi perché dico questo. Nel terzo livello li faccio entrare nel back-stage (dietro le quinte).

 

Fonte: Cfr. Fabio Rosini, Il triste caso dell’omelia, Lipa Edizioni, Roma 2025, pp. 224-228.  

venerdì 3 ottobre 2025

DOMENICA XXVII DEL TEMPO ORDINARIO (C) – 5 Ottobre 2025

 



 

Ab 1,2-3; 2,2-4; Sal 94 (95); 2Tm 1,6-8.13-14; Lc 17,5-10.

 

La fede si attua come un gratuito e libero incontro tra Dio che si comunica e la persona umana che accoglie la sua autocomunicazione aprendosi all’azione di Dio. La fede non è credere in qualcosa, ma credere in qualcuno, in Dio salvatore. Nell’evento della nostra salvezza, l’iniziativa è sempre di Dio. La fede è quindi anzitutto un dono. Non a caso il vangelo d’oggi inizia con la supplica degli apostoli a Gesù: “Accresci in noi la fede!”. La risposta di Gesù è immediata e, come al solito, sconcertante: “Se aveste fede quanto un granello di senapa, potreste dire a questo gelso: Sràdicati e vai a piantarti nel mare, ed esso vi obbedirebbe”.

Ecco, quindi, che Gesù proclama la potenza salvatrice della fede. Gli fa eco san Giovanni quando afferma che la vittoria che ha vinto il mondo è la nostra fede (1Gv 5,4). Ma questa fede che, anche se minuscola, sarebbe capace di sradicare e trapiantare nel mare un gelso, albero gigante dalle radici difficilmente sradicabili, non è da confondersi con una tecnica con cui ottenere effetti prodigiosi come lo spostamento di una montagna o il radicamento di un albero nelle acque del mare. La potenza della fede di cui parla Gesù è la potenza di Dio che si manifesta e si sprigiona nella vita di noi credenti. La fede lascia passare sempre e solo l’azione di Dio attraverso di noi; non costringe Dio a fare quello che vogliamo noi ma permette a noi di fare quello che vuole Dio. Infatti, Gesù parla in seguito del servo che “ha eseguito gli ordini ricevuti”.

La lettura apostolica ci invita a dare una coraggiosa testimonianza della nostra fede. La fede è impegno serio, anzi talvolta una sfida, quando si devono compiere scelte importanti nella vita. La prima lettura, tratta dal libro di Abacuc, conclude affermando che colui che non ha l’animo retto soccombe, mentre “il giusto vivrà per la sua fede”. La parola “fede”, nella lingua semitica in cui si esprimeva Gesù, significa fermezza e certezza, sicurezza e fiducia. La fede non ha niente a che fare con l’angustia degli orizzonti. Non intimidisce, non riduce la voglia di vivere e di crescere che c’è in ognuno di noi ma apre a questa nuovi ed insospettabili orizzonti.

L’eucaristia è “Mistero della fede”. “La fede e i sacramenti sono due aspetti complementari della vita ecclesiale. Suscitata dall’annuncio della Parola di Dio, la fede è nutrita e cresce nell’incontro di grazia col Signore risorto che si realizza nei sacramenti” (Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 6).

domenica 28 settembre 2025

IL "SACRIFICIO" EUCARISTICO

 



 

La parola “sacrificio” non compare in nessuno dei quattro racconti dell’istituzione dell’Eucaristia e non viene mai utilizzata nel Nuovo Testamento in riferimento alla cena del Signore o alla frazione del pane.

Tuttavia, si comincerà molto presto a parlare esplicitamente di “sacrificio” in rapporto con la pratica eucaristica. Basti citare il testo della Didaché 14: “Ogni domenica, giorno del Signore, riuniti, spezzate il pane e rendete grazie, dopo che avrete confessato i vostri peccati, affinché il vostro sacrificio sia puro. Chiunque ha qualche lite con il suo compagno, non si riunisca a voi prima che si siano riconciliati, affinché non sia profano il vostro sacrificio. Questo è infatti il sacrificio di cui ha detto il Signore: In ogni luogo e in ogni tempo, mi sia offerto un sacrificio mondo (cf. Ml 1,11)”. Pian piano – soprattutto a partire dal secolo III – diventerà un fatto sempre più comune tra i cristiani parlare di “sacrificio” in riferimento all’Eucaristia, ma in realtà il senso di questo termine e il significato preciso della sua applicazione a Cristo e alla celebrazione eucaristica non saranno intesi da tutti sempre esattamente allo stesso modo lungo i secoli.

L’ambiguità della nozione di sacro, ereditata dal paganesimo, rischia di influenzare la comprensione cristiana del sacrificio eucaristico.

Il termine “sacrificio” è uno dei vocaboli meno chiari e più spesso frainteso del linguaggio (cristiano) quotidiano, e questo anche per quanto si riferisce all’espressione e all’idea cristiana del “sacrificio della croce” e quindi del “sacrificio dell’Eucaristia”.

La tradizione biblica si libera a poco a poco dell’idea pagana di un dio che bisogna placare. Si tratta non più di blandire o ammansire la divinità, ma di entrare in comunione col Dio vivente.

Il popolo giudaico non cercava, come invece faceva il popolo romano, di accattivarsi la benevolenza di dèi lontani, ma intendeva ringraziare un Dio vicino.

A partire dall’evento assolutamente nuovo della risurrezione di Gesù, i suoi discepoli riconobbero sempre più chiaramente in lui il “compimento” globale delle Scritture. I grandi temi religiosi presenti nell’Antico Testamento furono in qualche modo visti confluire nella persona e nella vicenda di Gesù, trovando in lui il loro adempimento, cioè la loro realizzazione piena e perfetta, a un livello qualitativo superiore e definitivo. La Lettera agli Ebrei – applicando a Cristo il Sal 40 (39) – dice che egli, venuto nel mondo per fare la volontà di Dio, con l’offerta di se stesso ha abolito il regime dei sacrifici antichi “per costituire quello nuovo”, che realizza pienamente, nella realtà delle cose, ciò che i sacrifici dell’Antico Testamento potevano soltanto significare come “un’ombra” (cf. Eb 10,1-10).

Il nuovo regime di cose inaugurato da Gesù Cristo consiste nel trasporre radicalmente l’ambito dell’identificazione tecnica del “sacrificio” dal piano rituale a quello esistenziale. Un’esistenza vissuta nell’amore-dedizione-obbedienza a Dio: in questo consiste il vero culto a Dio. L’offerta di se stessi nella fedeltà assoluta alla volontà di Dio: in questo consiste il vero sacrificio a lui gradito, tenendo presente che – secondo l’insegnamento di Gesù – amare Dio e cercare la sua volontà comporta per ciò stesso amare il prossimo e cercare il bene degli altri. Tale fu precisamente il sacrificio di Cristo, da lui compiuto una volta per sempre nel “tempio del suo corpo” (Gv 2,21), cioè in tutto l’ambito del suo esistere storico umano. Il sacrificio di Cristo non consiste dunque nel puro fatto della sua passione e morte in croce, ma comprende tutta la sua vita come dono di se stesso fino all’estremo limite della morte in croce.

Nel sacrificio di Cristo si trova dunque come “rovesciata” l’idea che sta alla base della concezione comune del sacrificio religioso. Nella vicenda di Gesù non è tanto “l’uomo che si accosta a Dio tributandogli un dono”, quanto piuttosto “Dio che si avvicina all’uomo” per fargli dono della sua grazia di riconciliazione e della comunione di vita con lui.

Nella cena del Signore, “memoriale” di Cristo, si celebra il sacrificio di Cristo. Se è teologicamente legittimo chiamare “sacrificio” l’evento della vita e morte di Gesù, allora diventa legittimo chiamare “sacrificio” anche il rito memoriale in cui questo evento viene celebrato e attraverso cui se ne diviene partecipi. “Annunciare la morte del Signore”, mangiando del pane e bevendo al calice dell’Eucaristia, vuol dire riconoscere e proclamare il valore salvifico della morte di Gesù in croce; vuol dire accogliere con riconoscenza nel presente il dono di Dio nel sacrificio di Cristo; ma vuol dire anche ri-presentare ogni volta al Padre quel sacrificio di se stesso che Cristo ha offerto una volta per tutte. Celebrando il memoriale del sacrificio di Cristo, si diventa partecipi di questo sacrificio, non solo nel senso che se ne ricevono i benefici di riconciliazione e di salvezza, ma anche nel senso che si viene personalmente coinvolti nel dinamismo specifico di questo sacrificio.

Il sacrificio di Cristo, così come noi lo riviviamo in ogni Eucaristia, è anzitutto dono, il dono che Egli fa di sé stesso, di cui la morte è il momento culminante ma non unico. È l’intero mistero dell’Incarnazione, dalla sua origine e lungo l’intera vita di Cristo, che sostituisce i sacrifici antichi (cf Eb 10,5-7). Quando nell’ultima Cena Gesù prende il pane e il calice del vino, è l’intera sua esistenza che Egli prende ricapitolandola in questo gesto.

Noi siamo sempre portati a pensare al sacrificio in termini di privazione, e alla nostra partecipazione al sacrificio di Cristo in termini di offerta di noi stessi. Questo non è falso. La nostra offerta, infatti, è necessaria, e richiede da parte nostra delle rinunce, delle rotture, delle privazioni, che sono per noi vere “morti”, attraverso le quali possiamo partecipare alla morte del Signore.

Si è sviluppato in passato nei nostri tempi una tendenza che finisce per accantonare le celebrazioni liturgiche (celebrazione eucaristica compresa), nella convinzione che il vero culto cristiano consista esclusivamente in un’esistenza vissuta all’insegna della solidarietà verso gli altri. Se ci fosse da scegliere tra la partecipazione alla messa e la condivisione di un pasto fraterno con poveri ed extracomunitari, alcuni cristiani preferirebbero il secondo. A loro parere, dar da mangiare all’affamato (cf. Mt 25,31-46) sarebbe meno formalistico e più evangelico che celebrare l’Eucaristia.

Prima di tutto, forse si dimentica che la celebrazione eucaristica non è una sacra rappresentazione formale ed esteriore (cf. 1Cor 11,29), ma attua una comunione profonda – sacramentale – tra esistenze reali, cioè tra l’esistenza di Cristo e l’esistenza dei cristiani (cf Gv 6,51.53-58; 1Cor 10,16-17).

In secondo luogo, coloro che pensano così probabilmente non si rendono conto del carattere illusorio del tentativo di imitare da soli la solidarietà di Cristo. Senza Cristo, non possiamo fare nulla di buono (cf. specialmente Gv 15,5). Per mezzo di lui (cf. Eb 7,25; 13,15-21; cf. anche Rm 8,34; 1Gv 2,1), invece, i cristiani siamo in grado fin d’ora di avvicinarsi a Dio (cf. Eb 4,16; 7,19-25; 10,22; 12,22-23) “in pienezza di fede” (cf. Eb 10,22; cf 4,3; 6,1; 10,39), speranza e carità (cf. Eb 10,22-24), partecipando allo stesso sacrificio di Cristo.