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domenica 14 settembre 2025

UN RITO ULTRAMILLENARIO “VIETATO”?

 


 

Papa Francesco è intervenuto più volte sulla Messa in rito antico, o meglio sull’uso del Messale del 1962. Serve riavvicinarsi a chi è legato a questa modalità celebrativa?

Nella Chiesa tutti i battezzati hanno cittadinanza, se ne condividono il Credo e la morale conseguente. Nei secoli la diversità di riti celebrativi dell’unico sacrificio eucaristico non ha mai creato problema all’autorità, perché era chiara l’unità della fede. Anzi, ritengo sia una grande ricchezza la varietà dei riti nel mondo cattolico. Un rito, poi, non si compone alla scrivania, ma è il frutto di stratificazione e sedimentazione teologico-cultuale. Mi chiedo se si possa “vietare” un rito ultramillenario. Infine, se la liturgia è una fonte anche per la teologia, come vietare l’accesso alle “fonti antiche”? Sarebbe come vietare lo studio di sant’Agostino a chi volesse riflettere correttamente sulla grazia o sulla Trinità.

(Dall’intervista al Card. Robert Sarah, pubblicata nel giornale L’Avvenire del 12.09.2025).

Il card. Sarah parla di un rito ultramillenario (“vietato”), nel caso specifico, il rito romano nella sua versione del 1962. Anzitutto, il rito romano nella sua versione del 1962 non è stato vietato, ma riformato in ossequio a quanto deciso dal Concilio Vaticano II nella Costituzione Sacrosanctum Concilium. I libri liturgici del 1962 possono sempre essere adoperati come fonti anche per la teologia, e lo studioso noterà, tra l'altro, che in alcuni aspetti (nel loro linguagio verbale e non verbale) non esprimono la ecclesiologia del Vaticano II.   

venerdì 12 settembre 2025

ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE – 14 Settembre 2025

 



 

Nm 21,4b-9; Sal 77 (78); Fil 2,6-11; Gv 3,13-17

 

Il Sal 77 è uno dei più grandiosi del Salterio. Dagli avvenimenti della storia d’Israele e, in particolare, dal ricordo della misericordia di Dio e delle infedeltà del popolo, il salmo cerca di trarre insegnamenti per il presente. Alcuni Padri hanno attribuito le espressioni del Sal 77 alla storia della passione di Cristo. La liturgia del Venerdì Santo traduce il lamento del salmo nei “rimproveri” rivolti da Cristo al suo popolo infedele. I versetti ripresi dall’odierno salmo responsoriale possono essere considerati un insegnamento che Cristo rivolge alla sua Chiesa, affinché riponga la sua fiducia in Dio, non dimentichi ciò che egli ha compiuto per lei e sia fedele alla sua alleanza.

 

Le feste della santa Croce (prima del 1960 erano due: Invenzione della santa Croce [3 maggio] e Esaltazione della santa Croce [14 settembre]) nella loro origine risalgono alla dedicazione delle due basiliche fatte costruire da Costantino a Gerusalemme, una sul luogo del Calvario e l’altra su quella del sepolcro di Cristo. L’attuale festa del 14 settembre celebra la Croce come mistero di salvezza, come bene esprime il prefazio della messa: “Nel legno della Croce tu hai stabilito la salvezza dell’uomo, perché da dove sorgeva la morte di là risorgesse la vita, e chi dall’albero dell’Eden traeva vittoria, dall’albero della croce venisse sconfitto”. Le letture bibliche si muovono su questa linea.

 

La prima lettura ricorda l’infedeltà d’Israele nel deserto e la conseguente punizione di Dio che manda i serpenti velenosi, i quali causano la morte di gran numero d’Israeliti. Dopo il pentimento del popolo, Dio ordina a Mosè di fare un serpente di rame e metterlo sopra un’asta: “chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita”. Questo evento è stato interpretato dal libro della Sapienza come “segno” o “pegno” di salvezza offerto da Dio ad Israele (16,6-7).

 

La lettura evangelica riporta un brano del colloquio di Gesù con Nicodemo, in cui anche Gesù fa riferimento all’episodio del serpente nel deserto: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”. Per essere salvati, bisognerà “guardare” il Cristo, il Verbo di Dio “disceso” dal cielo e poi “innalzato” sulla Croce, bisognerà cioè credere che Egli è “l’unigenito Figlio di Dio” (Gv 3,18).  La parola “innalzato” significa, in Giovanni, tanto l’inalberamento di Cristo sul tronco della Croce, quanto la sua esaltazione gloriosa (cf. Gv 8,28; 12,32-34). La Croce è esaltazione dell’amore di Dio per noi: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito…” Perciò la colletta della messa può affermare che “con la Croce di Cristo […] abbiamo conosciuto in terra il suo mistero” di amore.

 

Anche il grandioso inno paolino della seconda lettura interpreta il mistero di Cristo attraverso lo schema: discesa, spogliazione o abbassamento (incarnazione) ed elevazione o esaltazione (morte e risurrezione). La croce è l’abisso dell’abbassamento, ma anche l’apice dell’esaltazione nella gloria pasquale. Dinanzi a questo mistero, ogni lingua deve proclamare che “Gesù Cristo è il Signore”. La Croce è l’albero della vita e noi nell’eucaristia ne cogliamo i frutti (cf. le orazioni sulle offerte e quella dopo la comunione).

domenica 7 settembre 2025

ANNO LITURGICO ED EVANGELIZZAZIONE




 

La liturgia, celebrata nel corso dell’Anno liturgico, ha una speciale efficacia per alimentare la fede dei partecipanti. Certamente l’Anno liturgico non può essere strumentalizzato e trasformato in un “programma” di evangelizzazione fatto a tavolino, né in una prima catechesi di iniziazione cristiana, perché l’Anno liturgico è il luogo dove i fedeli già convertiti e credenti, celebriamo il mistero che nutre la nostra fede (cf. SC, n. 9). In ogni modo, il ciclo annuale dei tempi e delle festività dell’Anno liturgico contiene in sé stesso una grande forza evangelizzatrice, e può diventare il luogo ideale di una permanente evangelizzazione del popolo di Dio. Infatti, quale scopo ha l’evangelizzazione? Nella prima Lettera ai Corinzi, san Paolo afferma che il Vangelo che egli ha annunciato ed i Corinzi hanno ricevuto è: “che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture…” (cf. 1Cor 15,1-5). Si tratta del mistero centrale della storia della nostra salvezza, che noi proclamiamo nel Credo.

Questa storia di salvezza è narrata dalla Bibbia e celebrata dalla liturgia. Quanto la Bibbia racconta dal Libro della Genesi a quello dell’Apocalisse, la liturgia lo ri-presenta lungo il cammino che dalla prima domenica di Avvento porta all’ultima domenica del Tempo Ordinario, e cioè l’unico piano salvifico di Dio. Nella Bibbia esso si svolge “con eventi e parole intimamente connessi tra loro, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole proclamano le opere e illuminano il mistero in esse contenuto” (Dei Verbum [DV], n. 2). Secondo i modi ad esso propri l’Anno liturgico ri-narra questo cammino, lo interpreta e lo annuncia realizzato nel mistero di Cristo, “il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione” (DV, n. 2). L’Anno liturgico conferisce quindi un particolare realismo alla parola di Dio in quanto l’attesta compiuta nel nostro oggi: “La Chiesa, specialmente nei tempi di Avvento, di Quaresima e soprattutto nella notte di Pasqua, rilegge e rivive tutti i grandi eventi della storia della salvezza nel ‘oggi’ della sua liturgia” (Catechismo della Chiesa Cattolica n.1095).

venerdì 5 settembre 2025

DOMENICA XXIII DEL TEMPO ORDINARIO (C) – 7 Settembre 2025

 



 

 

Sap 9,13-18; Sal 89 (90); Fm 9b-10.12-17; Lc 14,25-33

 

                   

Se vogliamo trovare un concetto che riassuma il messaggio delle letture bibliche odierne, possiamo dire che la parola di Dio ci propone una precisa scala di valori con la quale misurare e verificare la realtà ed essere quindi in grado di fare delle scelte sapienti. Dice Gesù nel vangelo: “Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo”. Queste parole si trovano nel contesto di una serie di affermazioni del Signore che intendono illustrare il carattere radicale che comporta la scelta di colui che intende diventare discepolo di Gesù. Diventare discepolo di Gesù, essere cristiano significa fare una precisa scelta di campo. Gesù vuol essere scelto come valore assoluto e determinante della vita dei suoi discepoli. La serietà della sequela di Gesù comporta un investimento di tutto il proprio essere a livello esistenziale; è quindi una scelta che la si può portare a termine solo se si è disposti a una totale donazione di sé, un totale amore per il Cristo; è una scelta che richiede una totale libertà interiore.

 

Il messaggio evangelico sconvolge i nostri abituali schemi mentali. Come è stato per Filèmone, un ricco signore, divenuto cristiano per opera di Paolo che lo chiama suo diletto e suo collaboratore (cf seconda lettura). L’apostolo si rivolge a questo suo discepolo e gli chiede che accolga Onèsimo, schiavo che era fuggito da Filèmone rubandogli del denaro, e lo riceva “non più però come schiavo” ma “come fratello carissimo”. Ciò che Paolo chiede a Filèmone è un grosso strappo con la mentalità e il diritto del tempo. E tutto questo in fedeltà ai valori del Vangelo. Prima e fondamentale conseguenza della sequela è la scoperta che nel Cristo siamo e diventiamo tutti fratelli. Paolo non affronta direttamente il problema della schiavitù; pone però principi e gesti concreti che sono in grado di contestare ed eliminare ogni ingiustizia e quindi la stessa schiavitù.

 

Ma come è possibile conformare la nostra vita alla logica del Vangelo, alla scala di valori proposta da Gesù? La prima lettura è un brano di una meditazione di Salomone sull’incapacità dell’uomo a capire la volontà di Dio. Nella ricerca di Dio la nostra mente si perde negli spazi infiniti di un mistero che l’intelligenza umana non riesce a contenere. I pensieri di Dio non coincidono con quelli degli uomini: tra loro c’è una differenza abissale. È quello che si percepisce quando si intende cogliere il messaggio radicale del Vangelo e la scala di valori in esso racchiusa. Come l’autore del brano della Sapienza, anche noi siamo chiamati a porci umilmente di fronte a questo mistero per poter accogliere l’unica parola che illumina e che salva. È Dio stesso che ci guida con la sua Sapienza, e cioè con lo Spirito di Cristo che ci è stato dato. Cristo, Sapienza del Padre, si comunica a noi soprattutto “alla mensa della parola e del pane di vita” (orazione dopo la comunione).

 

 

venerdì 1 agosto 2025

MEDITAZIONE ESTIVA

 

Con la morte di papa Francesco e l’elezione di papa Leone XIV, si sono risvegliati i dibattiti sull’uso della liturgia di Pio V nella sua edizione del 1962. Ripropongo ai miei lettori, come meditazione estiva, quanto avevo scritto quattro anni fa.  

 

LE APORIE DI “SUMMORUM PONTIFICUM”

 

In questo blog e altrove, ho più volte segnalato i punti deboli o, mi si permetta di chiamarli, le “aporie” del Motu proprio “Summorum Pontificum” [SP] con la Lettera ai vescovi che l’accompagna. Dopo la pubblicazione del Motu proprio “Traditionis custodes”, queste aporie acquistano una maggior evidenza.

1. Si afferma che il Messale del 1962 “non fu mai giuridicamente abrogato”. È un’affermazione che contraddice quanto ripetutamente aveva detto Paolo VI. D’altra parte, esiste il Pontificio Consiglio per i testi legislativi, “la cui funzione consiste soprattutto nella interpretazione delle leggi della Chiesa”, e non consta che questo Consiglio si abbia pronunciato al riguardo.

2. Si riconosce, citando SC 22, che “ogni vescovo è il moderatore della liturgia nella propria diocesi”. D’altra parte, però si sottrae al vescovo la possibilità di regolare l’uso del Messale del 1962. A tal punto che la Conferenza dei vescovi della Francia nella risposta al formulario sull’applicazione del Motu proprio SP inviato dalla Congregazione per la dottrina della fede, dice, tra l’altro, che “l’autorità dei vescovi su queste comunità (che celebrano col Messale del 1962) è quasi nulla”.

3. SP introduce accanto alla “forma ordinaria” del rito romano (la riforma di Paolo VI) una “forma straordinaria” dello stesso rito romano (la liturgia del 1962). Rimane incomprensibile come due Liturgie, con ordinamento di letture diverso, calendari differenti, testi diversi nei Tempi centrali dell’Anno liturgico, come cioè due forme espressive diverse della lex orandi possano realmente armonizzarsi con una lex credendi della Chiesa. Ciò si può sostenere soltanto se non è il rito in sé ma il significato del rito a confrontarsi con la lex orandi. In questo modo verrebbe meno una visione teologica che è maturata nel corso del Movimento liturgico e svanirebbe una fattiva acquisizione della teologia liturgica postconciliare.

4. Si afferma che “le due forme dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda”. Affermazione ambigua che qualche anno fa ha ispirato ad un Emmo. Cardinale la proposta di aggiungere nell’offertorio del Messale paolino le preghiere (ad libitum) dell’offertorio del Messale del 1962.

5. “Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande”. Questa solenne affermazione, come è stato notato anche recentemente, è un principio che scatena una vera e propria anarchia, perché si può applicare non solo al Messale del 1962, ma ad altre espressioni rituali precedenti. Infatti, è noto che alcuni gruppi che adoperano il Messale del 1962 non accettano il Triduo pasquale riformato da Pio XII in esso inserito e, nell’occasione, adoperano una edizione del Messale anteriore a tale riforma.

6. Sembra chiaro che i criteri con cui la Lettera del 7 luglio 2007 giustifica il ripristino della liturgia del 1962 sono di carattere soggettivo (desiderio, forma a loro cara, sentirsi attirati, forma appropriata per loro…). Diverso è il criterio che il card. Joseph Ratzinger nel 2001, al tempo Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, esprimeva quando affermava: “Se l'ecclesialità diventa una questione di libera scelta, se ci sono nella Chiesa delle chiese rituali scelte secondo un criterio soggettivo, questo diventa un problema. La Chiesa è costruita sui vescovi secondo la successione apostolica, nella forma di Chiese locali, quindi con un criterio oggettivo. Io mi trovo in questa Chiesa locale e non cerco i miei amici, incontro i miei fratelli e le mie sorelle; i fratelli e le sorelle non si cercano, si incontrano” (Autour de la question liturgique. Avec le Cardinal Ratzinger, Actes des Journées liturgiques de Fontgombault 22-24 Juillet 2001, Association Petrus a Stella, Fontgombault, 2001). Permettere di scegliere “à la carte” la propria tradizione rituale è un modo di ferire gravemente l’unità e la struttura della Chiesa. Il problema non è solo rituale, ma ecclesiologico.

 




domenica 27 luglio 2025

MARIA VENERATA NEI SECOLI

 



 

Corrado Maggioni, Tutte le generazioni ti chiamano Beata. Due millenni di liturgia e pietà popolare (Sapientia ineffabilis 43), IF Press srl, Roma 2025. 380 pp. (€ 25,00).

 

Maria è parte del mistero di Cristo. Lo hanno compreso le prime comunità cristiane e l’hanno celebrata, chiamandola beata! La beatitudine della Madre del Signore sta tutta nell’aver creduto, divenendo matrice di salvezza per ogni generazione. La sua memoria ha infatti permeato le tradizioni oranti di Oriente e Occidente, come si descrive nei nove capitoli di questo libro.

I primi secoli testimoniano le fonti della pietà mariana (Capitolo I), approfondita in epoca patristica come attestato dall’omiletica mariana orientale dei secoli IV-V (Capitolo II) e dalla portata mariana del Natale in Occidente nella tarda antichità e primo Medioevo (Capitolo III). Sono poi le feste in onore di Maria a maturare, nei secoli V-VIII, la venerazione per la Madre di Dio nelle Chiese orientali e occidentali (Capitolo IV). La pietà liturgico-mariana si arricchisce nei secoli VIII-XI (Capitolo V), mentre nei secoli XII-XV sorgono in Occidente altre feste mariane e fiorisce rigogliosa la pietà mariana non liturgica (Capitolo VI). Il percorso continua con le feste mariane dei libri liturgici tridentini e gli sviluppi del Calendario romano nei secoli XVI-XX, senza dimenticare pie pratiche e devozioni (Capitolo VII). Il rinnovamento del Concilio Vaticano II ha riguardato anche la memoria di Maria nell’anno liturgico e nell’odierno Calendario romano, come le particolarità mariane delle altre liturgie occidentali, l’ambrosiana e l’ispano mozarabica (Capitolo VIII). Anche la pietà popolare mariana, ereditata da secoli, è chiamata al rinnovamento alla luce della liturgia, con la quale deve armonizzarsi (Capitolo IX).


(Quarta di copertina)

 

venerdì 25 luglio 2025

DOMENICA XVII DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 27 Luglio 2025

 



 

Gen 18,20-32; Sal 137 (138); Col 2,12-14; Lc 11,1-13

 

Il ritornello del salmo responsoriale (“Nel giorno in cui ti ho invocato mi ha risposto”) ci invita a riflettere sulla preghiera, tema che unifica la prima e terza lettura di questa domenica.

 

La prima lettura ci parla della supplica coraggiosa e insistente di Abramo che si rivolge al Signore perché conceda misericordia alle città colpevoli di Sodoma e Gomorra, anche solo per la presenza di alcuni giusti. Purtroppo, però, questi giusti non ci sono. In ogni modo, il testo biblico sottolinea tutto il valore di intercessione di questa preghiera del patriarca, “nostro padre nella fede”; nello stesso tempo sta pure a dire che il Signore riconosce ai “giusti” una vera funzione “salvifica”. San Luca, nel brano evangelico ci racconta che un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e, quando ebbe finito, uno dei discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare”. Gesù risponde con la preghiera del Padre nostro e aggiunge due brevi parabole che descrivono l’atteggiamento di fiduciosa perseveranza con cui i discepoli devono rivolgersi a Dio nella preghiera.

 

Notiamo anzitutto che la domanda del discepolo a Gesù è provocata dall’esempio dello stesso Gesù. I discepoli, come ogni ebreo, sapevano pregare, e tuttavia intuivano che c’era qualcosa di diverso nella preghiera di Gesù, un modo nuovo di rivolgersi a Dio. La novità della preghiera cristiana consiste in un nuovo rapporto con Dio, che viene invocato semplicemente come “Padre” in modo familiare: Abbà, caro Padre. L’audacia di Abramo è superata dall’audacia di Gesù e dei suoi discepoli che nel suo nome dicono: Abbà. Le parole di san Paolo (cf. seconda lettura) sembrano spiegarci il perché Dio va invocato come Padre: attraverso la morte di Cristo, Figlio di Dio, i nostri peccati sono stati perdonati, il “debito” con Dio è stato “pagato”; ormai possiamo avere con lui rapporti filiali. Un’antica tradizione raccomanda di recitare il Padre nostro “tre volte al giorno” (Didaché 8,3), mattino, mezzogiorno e sera, come preghiera fondamentale che conserva in noi l’atteggiamento filiale verso Dio. Sintesi di tutto il vangelo, come afferma Tertulliano, il Padre nostro più che una formula da recitare, esprime un atteggiamento da interiorizzare.

 

La preghiera si può compiere più facilmente durante il tempo libero delle vacanze. Non è però una semplice attività da eseguire accanto ad altre. Nella preghiera diventiamo noi stessi nel modo più autentico, ci ritroviamo senza maschera, esprimiamo il nostro nucleo più intimo. Dopo la rivelazione del mistero della preghiera filiale di Cristo, per noi cristiani questo nucleo più intimo è il nostro essere “figli”, con un atteggiamento di piena sottomissione e di altrettanto piena fiducia in Dio, nostro Padre. Pregare non significa cercare di imporre a Dio la nostra volontà, ma chiedergli di renderci disponibili alla sua, al suo progetto di salvezza (“venga il tuo regno”). Troppo spesso le nostre preghiere guardano invece l’immediato, senza incrociare lo sguardo di Colui che sa in cosa consista la nostra felicità.

 

Una visione antropocentrica, frequente oggi, rischia, nei migliori dei casi, di ridurre la preghiera a una semplice attività di riflessione, in vista di un aggiustamento del proprio equilibrio psicologico. La preghiera invece è anzitutto ascolto, non solo della natura, della storia, di se stessi, ma ascolto soprattutto della Parola di Dio. Si potrebbe dire che, se per Dio “in principio è la Parola” (cf. Gv 1,1), per noi “in principio è l’ascolto”. 

 

domenica 20 luglio 2025

IL CASO TRISTE DELL’OMELIA

 



Fabio Rosini, Il caso triste dell’omelia. Rudimenti per un aggiornamento dell’ars homiletica, Lipa Srl, Roma 2025. 239 pp. (€ 17,00).

Don Fabio Rosini è docente di comunicazione e trasmissione della fede alla Pontificia Università della Santa Croce, dove – a partire dalla sua decennale esperienza di predicatore instancabile del Vangelo – offre preziosi contributi per un corretto approccio ad una preparazione omiletica non lasciata all’improvvisazione, mettendo anche in evidenza la problematicità di alcuni modi di predicare.

Il testo si rifà alle lezioni di quel corso, opportunamente adeguate all’esigenze di un’opera che non solo interessa i suoi studenti universitari, ma anche e soprattutto quanti sono chiamati al ministero della Parola.

Il libro è un significativo invito a riconsiderare il dono ricevuto di comunicare la fede, che l’omileta ha il compito di esercitare mettendo la vita e la Parola in relazione a quell’evento escatologico che fa irruzione nell’assemblea eucaristica.

(Quarta di copertina)      

venerdì 18 luglio 2025

DOMENICA XVI DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 20 Luglio 2025

 

 


 

 

Gen 18,1-10a; Sal 14 (15); Col 1,24-28; Lc 10,38-42

 

Gli antichi rabbini consideravano questo salmo una specie di compendio della legge data da Dio ad Israele. Soltanto un cuore semplice, sincero, amante della giustizia, libero da ogni cattiveria riesce a percepire la presenza di Dio nelle vicende di ogni giorno. Soltanto un cuore trasparente, umile e mite, capace di ascoltare la parola del Signore si rende degno di abitare in eterno nella casa del Signore. Le tre letture odierne ci invitano a passare dall’ospitalità che il Signore concede a noi, all’ospitalità che noi siamo chiamati ad offrire a Dio.

 

Il racconto proposto dal vangelo d’oggi è assai noto a tutti. Ci si potrebbe soffermare subito su Marta e Maria, spesso viste arbitrariamente come simboli contrapposti di una vita data all’attività, al servizio, alle opere, come quella di Marta, e di una vita data invece alla preghiera, alla contemplazione, come quella di Maria. È però più opportuno dare uno sguardo anche alle altre letture bibliche, in particolare alla prima. Vediamo infatti che sia la prima lettura che il racconto evangelico parlano dell’ospitalità: quella offerta da Abramo a tre personaggi misteriosi arrivati a casa sua, e quella offerta dalle sorelle Marta e Maria a Gesù. Possiamo quindi affermare che il tema centrale di questa domenica è l’ospitalità: sia Abramo che le sorelle di Lazzaro vengono presentati come modelli di accoglienza dell’ospite. Nei due episodi quest’ospite è Dio stesso. Possiamo perciò circoscrivere l’argomento e dire che si tratta di dare ospitalità a Dio. Non di rado la nostra vita appare frammentata, vuota, in balia degli eventi. Dio può dare senso e armonia alla nostra esistenza. È necessario però mettersi in atteggiamento di ascolto della sua parola, come Maria.

 

Le due sorelle rappresentano due modi diversi, non in contrasto ma complementari, di accogliere il Signore. Non si tratta di proclamare la superiorità della contemplazione sull’azione ma di richiamare sia Marta che Maria all’esigenza dell’ascolto della parola di Dio che deve precedere, alimentare e sostenere ogni scelta religiosa e umana del discepolo di Gesù. Perciò Maria è raffigurata nell’atteggiamento del discepolo davanti al maestro, “ai piedi del Signore” mentre ascolta la sua parola. Abbiamo bisogno di nutrire in noi un atteggiamento di ascolto della parola di Dio, sia che la nostra vita sia come quella di Marta, indaffarata in un lavoro che assorbe, o come quella di Maria, soli nell’interno di una casa quotidiana e solitaria. Nella seconda lettura, Paolo, che ha ricevuto da Dio la missione di “portare a compimento la sua parola”, ci ricorda che l’ascolto di cui parliamo porta all’impegno nel quotidiano. Anche il canto al vangelo parla di “coloro che custodiscono la parola di Dio” e “producono frutto con perseveranza” (cf. Lc 8,15). Non ha senso la contrapposizione tra ascoltare e darsi da fare, tra contemplare e agire. Si tratta di due momenti che si compenetrano a vicenda. L’ascolto della Parola offre le motivazioni profonde che danno senso al servizio. Ecco, quindi, che ci viene offerta una linea per dare unità alla vita: l’ascolto. Tutti abbiamo bisogno di ascoltare la parola del Signore, che è capace di avvolgere di luce nuova il nostro lavoro, il nostro riposo, le nostre preoccupazioni, le nostre lotte quotidiane. 

 

domenica 13 luglio 2025

UN “MONASTERO DEI NON CREDENTI”?

 



 

Devo riconoscere che l’esistenza di luoghi che richiamino la trascendenza, in un mondo così preso dalle questioni del quotidiano e dalla corsa al successo che si misura in quantità di moneta, è di stimolo e di richiamo a questa dimensione dimenticata.

Tale convinzione ha una lunga storia. E forse il segno più esplicito di questo bisogno si lega all’idea di un “monastero dei non credenti”, un luogo di “fuga”, o meglio di “rifugio” temporaneo, lontano dal mondo in cui dedicarsi alla ricerca di Dio partendo da se stessi, dalla propria interiorità, dai segni, dall’impronta che il Creatore deve aver lasciato da qualche parte nella mente umana.

Il mondo terreno è oggi ricco di attrazioni e ha un grande fascino. Si aggiunga la tecnologia che crea ambienti digitali e community attraenti come i social network.

Richiami a Dio e al cielo sono quindi utili, anche se dovrebbero limitarsi a luoghi di totale libertà, di libera ricerca, senza imposizioni, privi di richiami che finirebbero per rappresentare altre distrazioni.

Il “monastero dei non credenti” ha ancora per me un grande fascino. Anche perché in questo monastero si può scoprire di essere credenti. Un luogo dove fare esperienza di Dio. E basta. Lo si può incontrare dappertutto, ma è più facile qui che in un pub di Londra.

 

Fonte: Vittorino Andreoli, Preghiera del non credente, TS, Milano 2025, pp. 8-86.    

 

venerdì 11 luglio 2025

DOMENICA XV DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 13 Luglio 2025

 



 

 

Dt 30,10-14; Sal 18; Col 1,15-20; Lc 10,25-37

 

Il tema del comandamento dell’amore vicendevole, di cui parla il brano evangelico, ci viene proposto più volte lungo l’anno liturgico. Si tratta della legge fondamentale del credente, quella legge di cui Mosè tesse le lodi nella la prima lettura. Alla domanda del dottore della legge su che cosa debba egli fare per ereditare la vita eterna, Gesù non risponde ma rimanda l’interlocutore a ciò che sta scritto nella Legge di Mosè e che lo stesso dottore della legge riassume bene così: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. Partendo dall’amore di sé e da quello di Dio, diventa autentico l’amore per l’altro. Diversamente, c’è il pericolo di amare il prossimo, presentandogli il conto. La novità però dell’insegnamento di Gesù sta nella risposta alla seconda domanda formulata dallo scriba: “chi è il mio prossimo?”, questione dibattuta dal rabbinismo. A questa domanda Gesù risponde con la splendida parabola del Samaritano. Con questa parabola Gesù invita a superare ogni diatriba teorica ed evasiva sul contenuto reale da dare al termine “prossimo”: ogni uomo che si trova nel bisogno sia esso amico o nemico, è “prossimo” a tutti gli altri uomini che, in qualsiasi maniera, vengono in contatto con lui.  

 

Cosa fa il Samaritano? Prima di tutto si ferma perché si muove a compassione, che qui è vero amore. Per chi ha sempre troppo da fare, preso dai propri interessi, fermarsi per interessi altrui significa accorgersi che esiste un altro, che soffre e che è nel bisogno. In secondo luogo, si fa vicino all’uomo sofferente, non solo fisicamente ma anche con una vicinanza affettiva: se i cuori sono distanti, la vicinanza fisica non serve. In terzo luogo, si prodiga nei primi aiuti, cioè si rimbocca le maniche e offre un aiuto concreto. Finalmente, il buon Samaritano si assicura che il suo assistito possa ricuperarsi pienamente dalla disavventura. Non si accontenta di fare una buona azione, ma si preoccupa dell’individuo incontrato per caso affinché questi possa ritornare alla vita normale.

 

Nella seconda lettura si parla di Cristo “immagine del Dio invisibile”, espressione perfetta del volto del Padre, e perciò anche del suo amore infinito. Nel malcapitato della parabola i Padri della Chiesa vedono l’umanità peccatrice e nel buon Samaritano vedono il Cristo, che su tale umanità si china per prendersene cura. In Cristo Dio si è fatto “vicino” (cf Rm 10,5-10) e in lui e con lui è possibile amare il prossimo. Nell’eucaristia “l’agape di Dio viene a noi corporalmente per continuare il suo operare in noi e attraverso di noi. Solo a partire da questo fondamento cristologico - sacramentale si può capire correttamente l’insegnamento di Gesù sull’amore” (Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 14).

 

domenica 6 luglio 2025

UN RITO NON RITUALE?

 



“Benedizione pastorale” è il nome dato alla nuova modalità di benedizione introdotta dal Dicastero per la dottrina della fede con la dichiarazione Fiducia supplicans sul senso pastorale delle benedizioni (18/12/2023), che venne commentata dopo pochi giorni, il 4 gennaio 2024, in un Comunicato stampa emanato per “aiutare a chiarire la ricezione”. Francesco Pieri fa delle considerazioni interessanti al riguardo in un breve articolo pubblicato in Rivista di pastorale liturgica (Liscia, solenne o… pastorale? Il crinale sottile del benedire senza approvare: RPL n. 368, 1/2025, pp. 37-41). Di questo testo riproduco in seguito le conclusioni (senza le note a pie pagina).

Alla precisa domanda su “come potrebbero essere queste benedizioni” il card. Fernández ha proposto l’esempio di una coppia di divorziati passati a nuova unione: Il sacerdote può recitare una semplice orazione come questa: “Signore, guarda a questi tuoi figli, concedi loro salute, lavoro, pace e reciproco aiuto. Liberali da tutto ciò che contraddice il tuo vangelo e concedi loro di vivere secondo la tua volontà. Amen”. E conclude con il segno della croce su ciascuno dei due. Si tratta di dieci o quindici minuti.

Notiamo come la mancanza di un testo prestabilito non coincide con l’assenza di un “rito” (sia pure ridotto ai minimi termini) che si esprime nella preghiera e nel gesto benedicente. La stessa dinamica della benedizione rimane ben riconoscibile: in risposta ad un’invocazione di aiuto (dimensione ascendente), si formula una preghiera – rigorosamente spontanea – che personalizza l’annuncio kerygmatico dell’amore di Dio (dimensione discendente). Viene nella sostanza proposto un “rito non rituale”, ossimorico nella sua stessa pretesa malgrado i notevoli sforzi concettuali compiuti. Non c’è da stupirsi del pesante, ma assolutamente prevedibile “contraccolpo” ecumenico (forse non ponderato a sufficienza nella fase di preparazione della dichiarazione), subito manifestatosi nella reazione risolutamente negativa della chiesa ortodossa greca e dello stesso Bartolomeo I, nonché nella interruzione di ogni dialogo con la chiesa cattolica da parte della chiesa ortodossa copta.

Dirò in conclusione come – a mio avviso – anche un gesto estemporaneo e che prescinde intenzionalmente da ogni presupposto di ordine morale non pare comunque esimere il ministro da un certo impegno previo volto a conoscere la vicenda e le condizioni di vita di coloro che richiedono la benedizione, il loro grado di formazione e di consapevolezza riguardo al gesto che intendono compiere. Nel loro carattere prevalentemente negativo, le indicazioni in merito alla estemporaneità della formula e quelle sul contesto informale dello svolgimento di una “benedizione pastorale” intendono lasciare aperto all’interpretazione e alla prassi un campo molto ampio, che può andare dalla conoscenza dei soggetti tramite una regolare consuetudine di dialogo alla quai mancanza di elementi precisi di valutazione. È in questo spazio che la prassi e la discretio pastorale hanno una parte decisiva da svolgere.

venerdì 4 luglio 2025

DOMENICA XIV DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 6 Luglio 2025

 



 

 

Is 66,10-14c; Sal 65 (66); Gal 6,14-18; Lc 10,1-12.17-20

 

Le tre letture parlano della salvezza, della realtà nuova che Dio ha operato in noi. Nel vangelo vediamo che Gesù invia i suoi settantadue discepoli (tanti quanti sono le nazioni pagane secondo Gen 10) in missione di “pace”, a “curare i malati” e ad annunciare: “È vicino a voi il regno di Dio”. Che cos’è il regno di Dio? Per rispondere a questa domanda, iniziamo dalla prima lettura, la quale riporta un brano profetico pronunciato in un momento difficile per la storia d’Israele: dopo l’esilio di Babilonia, la situazione di coloro che sono ritornati a Gerusalemme è disperata; praticamente c’è penuria di tutto. È il momento impegnativo della ricostruzione. In questo contesto, il profeta annuncia un futuro di gioia e di benessere. Quale rapporto ha tutto ciò col regno di Dio? Quando la Bibbia parla del regno di Dio usa un concetto molto generale. Esso comprende anche l’appagamento di quei desideri umani che sorgono nei cuori degli uomini e nutrono le speranze dei popoli specie nei momenti di prova. Così si oppongono al regno di Dio la malattia, la morte, la povertà opprimente, la fatica, l’oppressione politica e sociale, la guerra. Possiamo quindi affermare che quando il profeta consola i rimpatriati da Babilonia e annuncia un futuro migliore, la prospettiva di fondo è quella del regno di Dio, quella situazione ideale di salvezza che tutti speriamo di poter raggiungere. Ciò che è tipicamente cristiano del regno di Dio è che il raggiungimento di un tale traguardo non è sperato solo in quanto frutto dell’opera umana, ma come dono che Dio ha promesso definitivamente per mezzo di Cristo.

 

Nel brano della seconda lettura, san Paolo annunzia al centro del suo vangelo la croce di Cristo, sorgente dell’essere “nuova creatura”. Il regno di Dio, di cui stiamo parlando, si realizza anche attraverso la via della croce. La croce assume in sé tutta la violenza dell’uomo, anzi essa è il risultato tenebroso dell’azione stessa di satana, ma nello stesso tempo la croce afferma la vittoria definitiva dell’amore di Dio sulle tenebre del peccato e della morte. È solo la conformità esistenziale alla croce, che ci unisce intimamente al Cristo glorioso.

 

Il messaggio di questa domenica lo si può riassumere in tre immagini: la gioia che scende su Gerusalemme, di cui parla il profeta, e anche la gioia che, secondo il vangelo, riempie il cuore dei settantadue discepoli al ritorno della missione; la cura dei malati come segno del regno di Dio che è vicino; la croce che ci rende partecipi della passione di Cristo e non veniamo meno perché sappiamo di essere partecipi anche della sua forza e della sua risurrezione. Tre immagini della salvezza, della realtà nuova, della nuova creatura, del regno di Dio.

domenica 29 giugno 2025

LA PREGHIERA IN RICERCA DI DIO

 



Signore, non ti conosco ma ti penso, non so se esisti ma ti cerco, e giungo a desiderare che tu ci sia. E questo pensiero mi dà sollievo e speranza.

Non posso cercarti io, sono un uomo fragile, ma proprio questa percezione mi spinge persino a pregare.

Non so come fare, e mi riesce difficile se solo considero che tu non ci sei, ma mi pare impossibile che possa esistere io e non Dio.

Nell’Inno alla gioia di Friedrich Schiller si invita a cercare, perché da qualche parte nel cielo ci devi essere tu, Dio.

Ma io voglio trovarti qui sulla terra. Adesso ho bisogno di un Dio. Per questa vita. Non so nulla dell’aldilà. Sono attaccato a questa terra.

 

Fonte: Vittorino Andreoli, Preghiera del non credente, TS Edizioni, Milano 2025, pp. 7-8.

venerdì 27 giugno 2025

SANTI PIETRO E PAOLO APOSTOLI – 29 Giugno 2025 Messa del giorno

 



 

At 12,1-11; Sal 33; 2Tm 4,6-8.17-18; Mt 16,13-19

 

La Chiesa celebra e onora assieme nello stesso giorno i due santi apostoli Pietro e Paolo, che “Dio ha voluto unire in gioiosa fraternità” (prefazio della messa). Due personaggi molto diversi, ma ambedue spinti dallo stesso amore per Cristo e la sua Chiesa. Secondo sant’Agostino, il loro martirio è segno di unità della Chiesa: “Un solo giorno è consacrato alla festa dei due apostoli. Ma anch’essi erano una cosa sola. Benché siano stati martirizzati in giorni diversi, erano una cosa sola. Pietro precedette, Paolo seguì. Celebriamo perciò questo giorno di festa, consacrato per noi dal sangue degli apostoli” (Discorso letto nell’Ufficio delle letture). In questo giorno celebriamo il mistero della Chiesa, fondata sul sangue e sull’insegnamento degli apostoli (cf. l’orazione colletta).

 

La prima lettura racconta che re Erode fece mettere in prigione Pietro per poi ucciderlo appena passata la Pasqua. Ma Dio lo liberò prodigiosamente in virtù della preghiera incessante della comunità di Gerusalemme. Nella seconda lettura, Paolo, ormai al tramonto, fa il bilancio della sua vita e anche lui, nonostante le difficoltà trovate e le prove subite nell’adempimento della sua missione apostolica, dichiara che il Signore gli è stato vicino e, guardando al futuro, conclude: “il Signore mi libererà da ogni male…” Perciò nel salmo responsoriale proclamiamo: “Il Signore mi ha liberato da ogni paura”. Il vangelo riporta la confessione di fede che Pietro fa a nome di tutti gli apostoli: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, e la risposta di Gesù: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa…” Il prefazio fa riferimento a questo passaggio quando dice che “Pietro per primo confessò la fede nel Cristo”, ma subito dopo aggiunge: “Paolo illuminò le profondità del mistero”. La fede di Pietro è illuminata dal mirabile magistero di Paolo. Pietro e Paolo sono le colonne della Tradizione cristiana. Pietro, la roccia sulla quale Cristo ha fondato la sua Chiesa; Paolo, “il maestro e dottore, che annunziò la salvezza a tutte le genti” (prefazio).

 

Oltre al prefazio anche le orazioni della messa delineano il significato ecclesiologico dei due apostoli. Il prefazio afferma che i santi Pietro e Paolo “in modi diversi hanno radunato l’unica famiglia di Cristo”. E l’orazione dopo la comunione contempla questa unica Chiesa alla luce delle note che hanno caratterizzato l’ideale della primitiva Chiesa gerosolimitana: perseveranza nella frazione del pane, nella dottrina degli apostoli, per formare nel vincolo della carità un cuor solo e un’anima sola. Il testo fa riferimento a At 2,42 (e paralleli), che descrive la vita della comunità primitiva come comunione fraterna o koinonia, termine greco che definisce la comunione di fede con Dio o con Cristo e l’unione profonda tra i credenti che si esprime e si attua nella fede comune, nell’esperienza eucaristica e nella condivisione spontanea dei beni. Questa comunione dei beni esprime tuttavia una realtà più profonda: la comunione dei cuori e delle anime. L’immagine della comunità delle origini sarà in seguito per la Chiesa di tutti i tempi l’ideale a cui tendere.     

         

La festa degli apostoli Pietro e Paolo ci ricorda che la Chiesa è un mistero di comunione. Possiamo quindi affermare che la missione primaria della Chiesa è quella di essere segno di comunione nel mondo. Il cristiano deve avere un cuore grande, sgombro di pregiudizi, un cuore pulito e trasparente, pronto all’incontro e al servizio.

 

 

domenica 22 giugno 2025

LE PAROLE

 



Le parole sono importanti perché danno espressione a ciò che noi, come comunità nel mondo e, andando indietro, nel tempo, crediamo circa la missione che ci è stata affidata in quanto discepoli. Le parole inoltre esprimono, rendono pubblico, quel che c’è nei nostri cuori. Le parole, le nostre parole e il nostro desiderio di usarle, sono ciò che ci rendono umani e rivelano chi siamo come individui e come comunità. Proviamo paura al pensiero di venir messi a tacere - e inorridiamo al pensiero di non essere in grado di parlare e di esprimere il nostro amore per chi ci circonda. Le parole sembrano tanto semplici - ma dove saremo senza di loro?

Usiamo le stesse parole più e più volte così che, ripetendole, esse penetrano nella nostra coscienza - ma in questo modo sorge anche il pericolo che possano ridursi a una formula, una tiritera, ripetuta a pappagallo, “solo parole”, insomma. Ma le parole hanno un valore. Esse ci uniscono come esseri umani, ci consentono di capire, di crescere come discepoli e di lodare il nostro Creatore. Una umanità senza parole sarebbe, in tutti i sensi “impedita”. Tuttavia, se le parole che descrivono delle azioni e delle cose non si collegano a quelle azioni e a quelle cose, perdono il loro significato. E quando ciò accade, le abbandoniamo perché non sono altro che rumore, o ne diffidiamo come fossero fumo negli occhi.

Non possiamo celebrare senza parole, ma se le parole hanno smarrito il loro legame di senso con il resto della vita, allora non avremo una celebrazione liturgica…

Fonte: Thomas O’Loughlin, Quale Mensa per noi tu prepari! L’Eucaristia come evento che plasma un popolo, Queriniana, Brescia 2025, pp. 47-48.

 

venerdì 20 giugno 2025

DOMENICA II DOPO PENTECOSTE: SS. CORPO E SANGUE DI CRISTO (C) 22 Giugno 2025

 

 



 

 

Gen 14,18-20; Sal 109 (110); 1Cor 11,23-26; Lc 9,11b-17

 

La prima lettura parla di Melchisedek, “re di Salem” e “sacerdote del Dio altissimo”, che, come segno di ospitalità e amicizia, “offrì pane e vino” e “benedisse” Abram che tornava da una vittoriosa campagna militare. La seconda lettura invece riporta la descrizione dell’ultima cena, in cui Gesù istituisce l’eucaristia col pane e col vino, sacrificio della nuova ed eterna alleanza. Il brano evangelico racconta la moltiplicazione dei pani e dei pesci, in cui Gesù compie gli stessi gesti con cui istituisce poi l’eucaristia: “prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli” (v. 16). Le tre letture fanno riferimento al mistero eucaristico che la Chiesa propone oggi di nuovo alla nostra attenzione dopo averlo contemplato la sera del Giovedì Santo con gli occhi rivolti alla Croce del Venerdì Santo. Che cos’è l’eucaristia? Non è possibile dare una risposta esauriente. Ci limitiamo ad una lettura del mistero eucaristico a partire dalla persona di Cristo sacerdote, come suggeriscono le letture bibliche odierne.

 

Possiamo prendere come punto di partenza un aspetto tipico del racconto di Paolo, soffermandoci cioè sul mandato di Gesù, ricorrente ben due volte in questa breve lettura: “fate questo in memoria di me”. Fare qualcosa “in memoria” non è semplicemente ripetere e neppure ricordare qualcosa o qualcuno. Sullo sfondo del contesto del rituale della Pasqua biblica, “fare memoria” vuol dire rendere presente l’evento salvifico per prendervi parte. Nell’orazione della messa si dice che nell’eucaristia il Signore Gesù “ci ha lasciato il memoriale della sua Pasqua”. Gesù, che ha vissuto una vita di totale obbedienza al Padre e di servizio agli uomini, cioè il vero culto e il vero sacrificio, alla fine della sua esistenza la riprende riassumendola ed esprimendola con il gesto simbolico, cultuale, del pane spezzato e condiviso e del calice del vino distribuito. Riassunta in un gesto rituale, ripetibile, celebrativo, Gesù consegna la sua vita ai discepoli perché noi tutti ne facciamo memoria nel rito (“fate questo in memoria di me”) e nella propria esistenza (“prendete e mangiate”) inseparabilmente. Come Cristo ha raccolto la sua esistenza (il vero culto) nei segni, così l’esistenza umana (il culto spirituale) si raccoglie in momenti – segno che in certo qual modo separano dal quotidiano per celebrare però il grande evento che dà senso al quotidiano. Ciò che dà consistenza all’eucaristia non è un rito, ma un’esistenza, quella di Cristo. Ciò che quindi è essenziale in questa celebrazione è la “memoria” di questa esistenza e di questa persona, la comunione con essa, l’appropriazione dei suoi stessi atteggiamenti esistenziali.  

 

Il sacerdozio di Cristo non è né rituale né semplicemente esteriore, bensì personale e vitale. Cristo si rende presente nell’eucaristia perché, partecipando ad essa, facciamo nostra la sua vita di oblazione e di condivisione. Celebrare l’eucaristia vuol dire riprodurre in noi i sentimenti di Cristo, di colui che ha vissuto una vita di totale obbedienza al Padre donandosi per la nostra salvezza. Egli diventa per noi pane, perché noi impariamo a diventarlo per gli altri.

 

 

domenica 15 giugno 2025

LO SPIRITO SANTO DONO DI CRISTO RISORTO

 



Durante la festa delle Capanne, che durava non meno di una settimana, si compivano due riti fondamentali. Durante il primo, quello della luce, si accendevano piccole candele, ardenti nella notte. È in tale contesto che Gesù proclama d’essere Lui la luce del mondo. Durante il secondo rito, quello dell’acqua, i sacerdoti in processione si recavano verso la parte sud del colle di Gerusalemme, per raggiungere la piscina di Siloe, prendervi l’acqua con le anfore, tornare nel tempio e farvi libazioni, per impetrare la pioggia autunnale. La festa veniva celebrata all’inizio dell’autunno. Gesù dona di sé una interpretazione nuova, quella della luce vera ed eterna, così adesso, riferendosi al rito dell’acqua, trae di sé una nuova immagine: “Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù, ritto in piedi, gridò: ‘Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva’. Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato” (Gv 7,37-39).

Chi ha sete di credere e chi, credendo, ha ancora più sete, non beve da quell’acqua attinta con le anfore dalla piscina di Siloe e sparsa nel tempio, ma da Lui, da Gesù, perché dal suo seno sgorgheranno fiumi e sarà l’acqua sovrabbondante dello Spirito Santo, la quale inonderà i credenti quando Lui, il Cristo, sarà glorificato.

 

Fonte: Giuseppe D’Amore, Lo Spirito Santo e i suoi sette doni, Edizioni Rinnovamento nello Spirito Santo, Rimini 2024, pp. 42-43.

venerdì 13 giugno 2025

DOMENICA DOPO PENTECOSTE: SANTISSIMA TRINITÀ ( C ) – 15 Giugno 2025

 


 

 

Pro 8,22-31; Sal 8; Rm 5,1-5; Gv 16,12-15

 

Nel giorno di Pentecoste gli apostoli hanno ricevuto lo Spirito Santo e, fedeli al comando del Maestro, sono partiti per annunciare la buona novella e battezzare tutte le genti nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. È dunque giusto che la solennità della Ss.ma Trinità segua immediatamente quella della Pentecoste.

 

Le letture bibliche della solennità sono un invito a non fermarsi sulla soglia di un dogma, ma a contemplare la Trinità come un mistero di comunione, di vita e di amore. La lettura del libro dei Proverbi parla della Sapienza come la prima delle opere di Dio e suo strumento nella creazione del mondo, che la tradizione cristiana ha interpretato riferito al Verbo incarnato (cf. Gv 1). San Paolo (seconda lettura) afferma che l’uomo, giustificato per la fede, è “in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo”. Finalmente, il vangelo ripropone le parole di Gesù che promette lo Spirito Santo per portare a compimento la stessa opera sua in noi. Il disegno di Dio, che si è compiuto pienamente in Cristo, trova attuazione in noi per mezzo dello Spirito Santo. Attraverso Gesù Cristo e guidati dallo Spirito abbiamo accesso al Padre. Possiamo riassumere il messaggio delle tre letture dicendo che Dio crea, salva e santifica. Il mistero della Trinità non è un mistero lontano, ma il mistero della nostra vita che si svolge nel tempo verso l’eternità di Dio. Ecco, quindi, che la Trinità non si presenta come una realtà misteriosa chiusa in se stessa, irraggiungibile, ma come comunione di vita che tende ad espandersi e a raggiungere ogni altra realtà, attraendola con il suo amore: Dio non è il solitario perfetto, ma ha voluto essere più persone che si amano in una comunione di essere, di vita e di donazione assoluti.

 

La solennità della Trinità, celebrata dopo che abbiamo percorso tutte le tappe della storia della salvezza, è un invito a scoprire la fonte e il senso di tutto, il protagonista assoluto della storia della salvezza: il Dio uno e trino. La riflessione sulla Trinità non è quindi semplice speculazione astratta, ma è un tentativo di comprensione del mistero di Dio per meglio comprendere il mistero dell’uomo in Cristo. È alla Ss.ma Trinità che riconduciamo insieme il mistero della creazione e il mistero della redenzione. Il Dio in cui crediamo è colui che ci ha creati e ci ha salvati ricomponendo quel che era al principio con quel che ora sperimentiamo in Cristo. Perciò anche la liturgia, il cui cuore è l’eucaristia, è opera della Santa Trinità (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n.1077). Adorare “l’unico Dio in tre persone” (orazione colletta) non vuol dire alienarci da questo mondo e metterci in una dimensione spirituale o astratta. Cristo, inviato dal Padre, ha ricreato con la forza dello Spirito quel che era stato creato. È dunque proprio dal mistero trinitario che prendono nuova luce, mentre aspettiamo la luce eterna, il mondo in cui viviamo, il mistero dell’uomo, e la varietà delle cose.