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domenica 26 ottobre 2025

UN RUOLO FEMMINILE NELLA LITURGIA FUNEBRE?

 



 

Il rapporto ritualizzato delle donne con la morte altrui è vicenda antica. Lo si trova in tempi e luoghi remoti. Il pianto e il lamento rituali erano pratiche comuni.

Si legge in Ezechiele: “Mi condusse alla porta del tempio del Signore che guarda a settentrione e vidi donne sedute che piangevano Tammuz” (Ez 8,14). In questo caso si tratta di una azione idolatrica, ma riflette un fatto comune in quella società. Nel mondo mediterraneo il threnos greco, le lamentazioni romane e i molti esempi folklorici prolungatisi nel tempo riservarono un ruolo rilevante alle donne: le matrici di vita non potevano restare estranee ai riti che accompagnavano la fine dell’esistenza.

In altre aree del mondo, sono testimoniati costumi in cui la presenza femminile è determinante. Malinowski, nel suo volume dedicato alla Melanesia, riporta un rito in cui, tra l’altro, il cadavere del defunto, dopo essere stato lavato, unto e coperto di ornamenti, è disposto su una fila di donne sedute per terra che accarezzano il cadavere, premono oggetti preziosi sul petto e sull’addome, smuovono leggermente le sue gambe e ne scuotono la testa al ritmo delle lamentazioni.

La sepoltura di Gesù fu un atto compiuto in fretta; incombeva il tramonto e con esso il riposo del settimo giorno. Non c’era tempo per il lamento. Le donne si predisponevano a prendersi cura del corpo di Gesù. Il racconto evangelico è costruito, fin dalla sepoltura, per renderle le prime testimoni della resurrezione. Preparano gli unguenti per la morte e incontreranno la vita.

Non è azzardato concludere che la mancanza di un esplicito e ufficiale ruolo femminile nella liturgia funebre cattolica contrasta con un sentire profondo dell’umanità.

 

Fonte: Piero Stefani, Donne e sepoltura, in “Il Regno” Attualità 15.05.25, pp. 302-303. Ho fatto una brevissima sintesi del testo che vale la pena di leggere per intero.

venerdì 24 ottobre 2025

DOMENICA XXX DEL TEMPO ORDINARIO (C) – 26 Ottobre 2025

 



 

 

Sir 35,12-15b-17.20.22a; Sal 33 (34); 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14

 

Il Signore ascolta il grido dei poveri, degli umili, di coloro che hanno il cuore ferito, e li salva da tutte le loro angosce. La speranza dei poveri si compie in Cristo; san Luca fa cominciare la missione di Gesù con la citazione di Is 61,1: “mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio” (Lc 4,18).

 C’è una certa continuità tra le letture della domenica scorsa e quelle odierne; è ancora il tema della preghiera, infatti, che ritorna con insistenza, sia pure da un particolare angolo visuale, che è quello della speciale attenzione che Dio rivolge alla preghiera dell’umile e del povero. La prima lettura ci ricorda che Dio è giusto; non v’è presso di lui preferenze di persone e, quindi, non può essere né comprato, né corrotto. Davanti a lui non contano le apparenze. Egli esaudisce chi con umiltà e amore lo supplica. L’insegnamento della parabola del fariseo e del pubblicano, riportata dal vangelo, si muove sulla stessa linea: il pubblicano, che si riconosce umilmente peccatore, torna a casa giustificato; il fariseo, che si vanta delle sue opere e disprezza gli altri, non viene invece giustificato. Nella seconda lettura ascoltiamo san Paolo che, ormai al termine della sua vita, ne fa un bilancio fiducioso e sereno e si affida al Signore, giusto giudice, che gli darà la corona di giustizia. La società in cui viviamo esalta i potenti, i forti, coloro che con la loro attività hanno raggiunto denaro, sicurezza e prestigio. Sono essi ad avere successo ed a diventare i modelli a cui facciamo volentieri riferimento. Presso Dio invece è il povero, l’oppresso e l’umile che ha garanzia di successo. I criteri di valutazione appaiono rovesciati. Dio non misura con le misure umane. Egli guarda il cuore dell’uomo.            

 Il vangelo di questa domenica ci ammonisce a lasciare un po’ di spazio al Signore, a non presumere, a non pretendere, a non passare il tempo ad elencare i nostri meriti. Siamo tutti nudi davanti a Dio, tutti mendicanti. La giustificazione, cioè la salvezza, non è certo frutto della nostra giustizia, né delle nostre risorse di creature. La giustificazione è anzitutto un dono, è una grazia che viene dalla misericordia di Dio. Afferma san Giovanni che il cristiano non è figlio di Dio per nascita (Gv 1,13) ma perché è rinato, perché è stato rigenerato dall’alto mediante lo Spirito (Gv 3,5-8). Nella nostra vita tutto è dono, tutto è grazia. San Paolo riconosce che “per grazia di Dio” è quello che è (1Cor 15,10). D’altra parte, l’orazione colletta ci ricorda che per ottenere il dono di Dio, dobbiamo amare ciò che egli comanda; la giustificazione chiama in causa l’uomo che con la sua libertà è chiamato a corrispondere al dono di Dio. Infatti, la giustificazione non è un atto magico che avviene ineluttabilmente ma una azione che inserisce la nostra libertà in una situazione nuova originata dal dono di Dio.

 L’eucaristia è la mensa alla quale il Cristo invita i poveri, i piccoli e gli umili come al convito del regno di Dio (cf. Mt 5,3; Lc 6,20). Prima di avvicinarci alla comunione proclamiamo con il centurione del vangelo: “O Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa: ma dì soltanto una parola e io sarò salvato” (cf. Mt 8,8). Ma l’eucaristia è anche il massimo della azione salvifica del Risorto e la anticipazione della condizione definitiva del salvato.

 

domenica 19 ottobre 2025

LA PROSPETTIVA DI FUTURO DELLA LITURGIA

 



 

Proprio la liturgia, che era stata il primo oggetto di espressione conciliare e su cui la riforma ha lavorato a fondo, avviando processi, era diventata, prima di Francesco e durante il suo pontificato, terreno per eccellenza di resistenza al concilio. Il vero oggetto del contendere è stato espresso dallo stesso Francesco nel modo più limpido in Desiderio desideravi, al n. 31: “Sarebbe banale leggere le tensioni, purtroppo presenti attorno alla celebrazione, come una semplice divergenza tra diverse sensibilità nei confronti di una forma rituale. La problematica è anzitutto ecclesiologica”.

La resistenza alla liturgia è resistenza alla ecclesiologia. Ecco allora, nella prospettiva di futuro che si apre oggi alla Chiesa cattolica, alcune linee di sviluppo possibile.

a) La pace liturgica: i padri e i figli del concilio Vaticano II cercavano la pace. Lo hanno fatto con oscillazioni di giudizio molto grandi. Ricuperare la evidenza dello “sviluppo organico” della liturgia romana esige la resistenza a cadute ideologiche. Non vi è alcuna “messa di sempre”. Piuttosto, la messa si è sempre evoluta, secondo i tempi e le circostanze. Tutta la liturgia è. Insieme, continuità e discontinuità. Solo così resta viva e vitale, purché assuma la vita nel mistero, oltre che il mistero nella vita.

b) I simboli rituali: se la intelligenza del mistero avviene per ritus et preces, tutti i linguaggi verbali e non verbali devono essere in gioco. Le parole prendono senso del loro uso e così le azioni. Una accurata elaborazione delle traduzioni – sia delle parole sia delle azioni – tra diverse culture non ha alcunché di univoco. L’unità non è garantita da una lingua che nessuno parla e pensa più, ma da accurate traduzioni tra lingue.

c) I soggetti della azione: la graduale valorizzazione di tutti i soggetti della celebrazione richiede anche un linguaggio adeguato. Continuare a parlare, nei libri rituali, di “celebrante” per indicare “colui che presiede” costituisce la inerzia si un “canone medievale” rispetto alla nuova coscienza, espressa per esempio dal Catechismo della Chiesa cattolica, secondo cui “tutti celebrano”. Riconoscere la Chiesa come “comunità sacerdotale” avrà nel riconoscimento del sacerdozio battesimale il suo punto di svolta.

d) La custodia del mistero: infine il tratto più delicato del compito di “formazione liturgica”. Imparare a dare la parola al rito significa lasciarsi rieducare dai linguaggi più elementari: dal tatto, dal gusto, dall’olfato, dall’udito e dalla vista. La Chiesa incontra il suo Signore morto e risorto e diventa il suo Corpo se onora questa duplice richiesta: di prendere l’iniziativa, con tutta l’autorità, e di perdere l’iniziativa, rimettendo a Dio ogni autorità. La consapevolezza che tutta la sua azione prende origine e si compie su questo livello simbolico e rituale (SC 10) permette di leggere la riforma liturgica davvero come esordio di una “scuola di preghiera”. A questa idea di Paolo VI Francesco ha creduto di nuovo, aprendo il campo ad uno sviluppo promettente.

 

Fonte: Andrea Grillo, “Liturgia”, in Andrea Grillo – Luigi Mariano Guzzo (edd.), Intra Omnes. Dal popolo di Dio al conclave, Queriniana, Brescia 2025, pp. 84-89 (qui: 88-89).

venerdì 17 ottobre 2025

DOMENICA XXIX DEL TEMPO ORDINARIO (C) – 19 Ottobre 2025

 


 

Es 17,8-13; Sal 120 (121); 2Tm 3,14-4,2; Lc 18,1-8.

 

“Il mio aiuto viene dal Signore”. Così abbiamo risposto alle singole strofe del salmo responsoriale. Riprendendo le stesse parole, esprimiamo la nostra fede nella presenza del Signore alla sua Chiesa e, in essa, a ciascuno di noi. È una presenza vigile e premurosa, nella quale troviamo sempre aiuto e sicurezza. Il Signore copre con la sua vigilante protezione tutto il percorso della nostra vita, dall’uscita dal grembo materno fino all’ingresso nel grembo della terra.  

 

Anche il canto d’ingresso, preso pure esso da un salmo di fiducia, esprime le idee di fondo del salmo responsoriale e ne trae ispirazione per rivolgersi a Dio con una toccante preghiera: “Io t’invoco, o Dio, poiché tu mi rispondi; tendi a me l’orecchio, ascolta le mie parole. Custodiscimi come la pupilla degli occhi, all’ombra delle tue ali nascondimi” (Sal 16,6.8). Il brano evangelico illustra come Dio sia buono e giusto e venga in aiuto a chi lo prega con fede e con perseveranza. L’accostamento col vangelo invita a vedere nel gesto di Mosè con le mani alzate, di cui parla la prima lettura, un gesto di preghiera insistente ed efficace. Questa è poi l’interpretazione che fa del testo l’antifona al Magnificat dei Primi Vespri: “Le mani di Mosè rimasero alzate in preghiera fino al tramonto del sole”. La lettura apostolica esalta il ruolo della parola di Dio nella vita cristiana. In fine, il canto al vangelo esalta l’efficacia della parola di Dio: “La parola di Dio è viva ed efficace, discerne i sentimenti e i pensieri del cuore” (cf. Eb 4,12).

 La liturgia odierna ci invita a riflettere sull’efficacia della preghiera, in particolare di quella di supplica. Non si tratta di una efficacia meccanica, quasi che il pregare fosse un’attività magica. La preghiera è anzitutto un’esperienza profonda di fede e di fiducia in Dio. Quando Gesù ci esorta a “pregare sempre, senza stancarsi”, a “gridare” e “importunare” non intende indurci a pregare per ottenere favori casuali. Egli ci spinge a pregare perché il regno di Dio si compia, come ci ricorda il Padrenostro: “Venga il tuo regno” (Mt 6,33). Tutte le suppliche, anche quelle dirette alla propria salvezza personale, mirano in ultimo termine alla venuta del regno di Dio, nel quale la nostra individualità è inserita senza nel contempo scomparire, e il cui arrivo porta con sé il nostro essere salvati. È necessario però ricordare che il compimento del regno di Dio si attua attraverso il cammino della croce che conduce alla pasqua. La prima lettura ci insegna che preghiera e impegno debbono andare insieme: la preghiera dà all’impegno il suo riferimento essenziale a Dio, e l’impegno dà alla preghiera la sua serietà e coerenza. La preghiera non sostituisce lo sforzo quotidiano nel servire Dio con lealtà.

L’eucaristia nutre la nostra speranza, perché la Chiesa celebra l’eucaristia “finché egli venga” (1Cor 11,26). La presenza di Cristo nell’eucaristia è dinamica e ci pone nell’attesa del suo ritorno: “Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,20). Partecipando all’eucaristia viviamo già, anticipatamente e in speranza, la realtà piena di una salvezza che ora è offerta sotto il velo dei segni sacramentali e con i limiti di tutte le cose umane.

 

domenica 12 ottobre 2025

IL PADRENOSTRO (Lc 11,2-4)

 



 

Il Padrenostro è giunto a noi in due forme: quella di san Matteo (6,9-13) e quella di san Luca (11,2-4). La prima è più ampia e strutturata ed è quella che preghiamo normalmente; la seconda è più breve. La diversità fra le due versioni ci dice che i primi cristiani non erano rigidamente attaccati alle precise parole, ma alla sostanza. E difatti le parole sono diverse, ma la sostanza è uguale in tutte e due le versioni.

Matteo ha collocato il Padrenostro nel grande discorso della montagna (Mt 6,9-13), per suggerire ai cristiani come pregare, non moltiplicando le parole come fanno i pagani, bensì rivolgendosi a Dio con sobrietà e umiltà. Luca ha invece collocato il Padrenostro in un contesto ancora più bello. I discepoli vedendo Gesù che prega sono colpiti dal rapporto che intuiscono esserci tra Gesù e il Padre e desiderano entrare anch’essi in questo circuito di amore: “Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: ‘Signore, insegnaci a pregare’” (Lc 11,1). La preghiera che Gesù insegna ai suoi discepoli sgorga dalla sua preghiera personale. Il Padrenostro non è semplicemente un testo da recitare. È anche un riassunto dell’intero Vangelo e ogni sua frase deve essere accuratamente meditata e compresa.

Prendiamo il testo del vangelo di san Luca (11,1-4): “Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: ‘Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli’. Ed egli disse loro: ‘Quando pregate dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione’”.

In questo breve brano del vangelo di san Luca, ci viene trasmesso un testo tradizionale del Padrenostro più breve di quello più conosciuto riportato da san Matteo. San Luca colloca la trasmissione di questo testo nel cammino di Gesù verso Gerusalemme. Possiamo affermare che la preghiera è anche un cammino, un progetto che impegna l’intera vita dei discepoli di Gesù. Non si tratta quindi propriamente o semplicemente di una formula o di un momento rituale. Come dice un detto dei padri del deserto dell’antico Egitto: “Se il monaco prega solo quando sta in preghiera, egli non prega affatto”. La preghiera tende a farsi vita, a permeare tutta l’esistenza del credente. Tommaso da Celano, noto storico di san Francesco d’Assisi, afferma che ad un certo momento Francesco “non pregava più, era ormai divenuto egli stesso preghiera”.

Ecco perché, nelle brevi sentenze (invocazioni e suppliche) di cui si compone il Padrenostro, Gesù ha sintetizzato il programma della sua vita e della vita di tutti coloro che intendono seguirlo come discepoli; si tratta di un progetto che gira attorno a due realtà: Dio e il prossimo.

In primo luogo, Dio. San Luca indica che la nostra preghiera deve avere la stessa confidenza di quella di Gesù: l’invocazione “Padre” (priva di ogni altro aggettivo, come invece ha in san Matteo) è tipica sulle labbra di Gesù, esprime la sua filiazione divina. Possiamo rivolgerci a Dio come un figlio, chiamandolo familiarmente “Padre”, come ha fatto Gesù. La familiarità del rapporto con Dio è ricordata molte volte nel Nuovo Testamento. È infatti una nota qualificante, che segnala l’originalità cristiana.

La vera novità, però, non sta nel rivolgersi a Dio con l’appellativo di Padre. Questo avviene anche nella religione ebraica: YHWH è chiamato Padre perché è il creatore, il legislatore ed il protettore. Specifico cristiano è poter rivolgersi a Dio con lo stesso tono o modo di Gesù, figli nel Figlio, aspetto questo che Luca col suo semplice “Padre”, senza aggiunte, sembra sottolineare: ci rivolgiamo a Dio chiamandolo semplicemente “Padre”, come ha sempre fatto Gesù. “Abba” (reso anche “abbà”) è un appellativo – traducibile come “papà” – usato in ambito giudaico antico per rivolgersi in maniera informale al padre. Nel Nuovo Testamento, Gesù si riferisce a Dio utilizzando questo termine (cfr. Mc 14,36), che non ha la solennità della lingua liturgica: in sinagoga si pregava Dio dicendo “avinu” (padre nostro, in ebraico) o semplicemente “av”, ma non il familiare “abbà”, il cui utilizzo in relazione a Dio è assente nell’Antico Testamento.

La prima invocazione del Padrenostro è “sia santificato il tuo Nome”. Si tratta di un’espressione un po’ lontana dal nostro modo usuale di parlare, e richiede di essere intesa alla luce dell’Antico Testamento, in particolare di Ezechiele 36,22-29, in cui si legge, tra l’altro: “Santificherò il mio nome grande, profanato fra le nazioni, profanato da voi in mezzo a loro. Allora le nazioni sapranno che io sono il Signore… quando mostrerò la mia santità in voi davanti ai loro occhi”. Non si tratta quindi di una santificazione fatta di riti e di parole, quanto piuttosto di permettere a Dio di svelare, nella vita del singolo e della comunità, la sua potenza salvifica. Alla domanda poi in che modo noi possiamo santificare il Nome di Dio, i rabbini solevano rispondere: con la parola, ma soprattutto con la vita, quando in noi risplende qualcosa della santità di Dio.

La seconda invocazione chiede “venga il tuo regno”. È la supplica centrale. Il Regno di Dio è già presente oggi in mezzo a noi, ma è indirizzato dinamicamente verso un compimento alla fine dei tempi. Quindi è allo stesso tempo un dono e un compito, che richiede il nostro impegno per costruirlo. Preghiamo “venga il tuo Regno”, ma il Regno di Dio non è un segmento del calendario, è invece un dinamismo orientato a stabilire un nuovo rapporto tra Dio e gli uomini. Questo nuovo rapporto si è realizzato pienamente e definitivamente in Cristo Gesù, uomo e Dio. È nostro compito creare delle condizioni perché Cristo regni nel cuore di ciascuno di noi e nel cuore dei nostri fratelli e sorelle, cioè perché si stabiliscano dei rapporti di amicizia tra Dio e ciascuno di noi.  

Poi, il prossimo. Per cui e con cui siamo chiamati a impegnarci perché regni la giustizia in modo che tutto ciò che Dio ha creato sia alla portata di tutti (simbolicamente presente nella richiesta “dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano”). Si parla del pane “quotidiano”, che nel testo greco originale può significare anche il pane “necessario”. La domanda del pane rinvia anche all’episodio anticotestamentario della manna: “Mosè disse loro: nessuno ne avanzi per domani. Ma essi non ascoltarono Mosè e alcuni ne presero di più per l’indomani: sorsero dei vermi e si corruppe” (Es 16,19-21). La lezione del miracolo della manna non è soltanto la fiducia nel dono di Dio, che ogni giorno pensa al suo popolo, ma anche - e forse ancora di più - la proibizione dell’accumulo: si deve soltanto raccogliere il cibo che basta per un solo giorno. L’accumulo imputridisce.

Come conclusione di quanto detto riporto l’intelligente preghiera di un antico saggio, che si legge nel libro dei Proverbi: “Due cose ti chiedo, non negarmele prima che io muoia: allontana da me falsità e menzogna, non darmi povertà o ricchezza, ma fammi gustare il mio pezzo di pane, perché, saziato, non abbia a insuperbire e dica: chi è il Signore? Oppure, trovandomi in povertà, non rubi e bestemmi il nome del mio Dio” (30,7-9).

Il cristiano che recita il Padrenostro prega al plurale, chiede il pane comune, il pane per tutti, non soltanto per se stesso. Questo tratto rinvia all’esempio della prima comunità di Gerusalemme, di cui parla Luca nel libro degli Atti degli Apostoli. Due volte Luca precisa che “avevano tutto in comune” (2,44; 4,32). Da notare in questa domanda la sobrietà e allo stesso tempo la dimensione comunitaria.

La quarta domanda chiede il perdono dei peccati: “perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore”. Col prossimo possono sorgere attriti, differenze, scontri e contraddizioni, però dobbiamo essere sempre disposti a sanarli attraverso il perdono perché anche noi abbiamo bisogno del perdono di Dio. Luca ha cambiato il termine “debito” che ai greci non sarebbe apparso nel suo significato religioso (la metafora del debito per indicare il peccato è di uso ebraico, non greco), conservando però il termine per indicare il perdono al prossimo. Si noti che Luca è più chiaro di Matteo nel dire che il perdono di Dio precede al nostro: “perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore”.

Il Padrenostro si conclude con la supplica: “non abbandonarci alla tentazione”. L’anteriore traduzione del Padrenostro diceva: “Non ci indurre in tentazione”.  Nella lettera di Giacomo si legge: “Nessuno, quando è tentato, dica: ‘Sono tentato da Dio’; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno. Ciascuno piuttosto è tentato dalle proprie passioni…” (Gc 1,13-14). Non è Dio che ci conduce alla tentazione, ma solo – se mai – la permette. Ricordiamo il caso di Giobbe 1,12. Ma quale tentazione? San Luca adopera qui la stessa parola adoperata nel racconto delle tentazioni di Gesù nel deserto che, per l’evangelista è la tentazione cosiddetta messianica, tipica tentazione che insidia sempre la Chiesa e tutti noi. È la tentazione di svolgere il proprio compito secondo la parola di Dio (cioè in una prospettiva di servizio accettando anche la Croce) oppure essere tentato di cercare piuttosto sicurezze nella potenza degli uomini. Possiamo aggiungere che tentazione è tutto ciò che può appesantire il nostro cuore così che la parola di Dio viene soffocata: tentazioni sono le prove quotidiane che, alla lunga, logorano il coraggio iniziale. Chiediamo di essere liberati da tutto questo. Non chiediamo di essere esenti dalla tentazione, ma di essere aiutati a superarla.

Per noi battezzati il Padrenostro rappresenta un punto di riferimento di ogni preghiera e dell’intera nostra vita. Un Padrenostro ben pregato ogni giorno nutre la nostra vita di fede, quella fede che abbiamo ricevuto come dono nel battesimo. È tradizione molto antica pregare il Padrenostro tre volte al giorno. Così afferma la Didachè, un documento della metà del secolo II: dopo riprodurre il testo del Padrenostro, dice: “Così pregherete tre volte al giorno” (VIII, 3). Tradizione che la liturgia romana conserva: lo preghiamo alle Lodi, ai Vespri e nella santa Messa. In tutti i tre casi si tratta di una preghiera “comunitaria”, rivolta a Dio dall’intera comunità celebrante.

 

 

venerdì 10 ottobre 2025

DOMENICA XXVIII DEL TEMPO ORDINARIO (C) – 12 Ottobre 2025

 



2Re 5,14-17; Sal 97 (98); 2Tm 2,8-13; Lc 17,11-19

 

La prima lettura ci riferisce della guarigione di Naamàn, un ufficiale siro non appartenente al popolo di Israele, che riconosce l’opera della salvezza compiuta dal Signore in lui. Il brano della lettera a Timoteo riporta la testimonianza di san Paolo in catene per il vangelo, che esclama: “sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza”. In fine, il vangelo racconta che dei dieci lebbrosi guariti da Gesù solo un samaritano, uno straniero, dopo la guarigione, torna indietro a ringraziare il Signore che gli dice: “La tua fede ti ha salvato”. Il messaggio è chiaro: anche gli “esclusi” ed i “non privilegiati”, come i lebbrosi e gli stranieri sono chiamati a godere dei benefici della salvezza

 Il vangelo “è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede” (Rm 1,16). Tutti sono chiamati alla fede e quindi alla salvezza. Diciamo di vivere nel tempo della globalizzazione. I nostri problemi sono i problemi degli altri, vicini e lontani. I moti migratori fanno sì che le nostre città siano diventate sempre più eterogenee, multirazziali. Parliamo di “extracomunitari”, ma in fondo sappiamo che tutti siamo membri di una grande e unica comunità umana. Il momento storico che stiamo attraversando può divenire il grande segno che Dio chiama tutti a creare un mondo riconciliato, unito nella diversità, armonioso e pacifico, in cui uomini e donne di diverse razze e popoli si ritrovino tutti fratelli e sorelle, figli e figlie di Dio e riconoscano in Gesù Cristo il loro Salvatore. Se la salvezza è per tutti i popoli, dobbiamo guardare i fenomeni odierni con serenità e aprirci alla speranza. Al di là dei problemi che possa creare l’attuale situazione, il cristiano deve saper scorgervi il disegno salvifico di Dio. Chiudersi in se stessi egoisticamente non è da credenti. Con questi nostri fratelli “non ci stanchiamo mai di operare il bene” (colletta), quel bene che diventa segno del bene supremo della salvezza che Dio offre a tutti.

 
L’eucaristia è espressione perfetta della nostra fede. Essa ha quindi una dimensione ecumenica e missionaria. Nell’eucaristia entriamo in comunione con Cristo che ha dato se stesso per noi e per tutti gli uomini fino al sacrificio di sé. Inoltre, partecipando al sacrificio eucaristico rinsaldiamo la nostra unità come Chiesa: “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane” (1Cor 10,16-17). Analogamente, forti dell’amore del Signore che ci viene offerto e comunicato, siamo chiamati a fare dono di noi stessi ai nostri simili per ricreare un tessuto di solidarietà e di comunione nella nostra società.

 

domenica 5 ottobre 2025

LA STRUTTURA DELL’OMELIA

 



 

La vita della fede è analoga alla vita biologica. E la vita biologica ha un suo statuto tripartito. Nella vita biologica abbiamo tre fasi: una fase è l’innesco (e la conseguente gestazione); abbiamo l’infanzia (che è un processo di autonomizzazione); e poi abbiamo la vita adulta (caratterizzata di autonomia e fecondità).

Prima di tutto alla base c’è una fase kerygmatica, dove c’è da innescare la fede. Iniziare, avviare la fede. C’è poi una fase propriamente formativa, educativa, che è il tirar fuori, e-ducere, far crescere, e appunto condurre all’autonomizzazione. E quindi deve arrivare la fase paterna, dove si diventa capaci di generare la vita secondo la fede negli altri.

Se ho davanti un’assemblea cristiana, per forza di cose ho davanti me questi tre tipi di persone […]. Se io offro una predicazione kerygmatica, forse aiuto i primi, ma non sono pertinente per gli altri. Come fare? In primis devo riconoscere il kerygma della Parola, trovare qual è l’annunzio nascosto della Parola. Secondo punto: devo afferrare il come di questo kerygma, cioè come si entra in quell’annunzio. Qual è la strada. Terzo punto: il perché. Perché quel kerygma è importante.

Se io annunzio il kerygma, con questa prima fase coinvolgerò i primi. Con queste altre fasi includerò gli altri. Io devo spiegare qual è l’annunzio, ossia qual è la salvezza, e poi come si entra e quindi perché dico questo. Nel terzo livello li faccio entrare nel back-stage (dietro le quinte).

 

Fonte: Cfr. Fabio Rosini, Il triste caso dell’omelia, Lipa Edizioni, Roma 2025, pp. 224-228.  

venerdì 3 ottobre 2025

DOMENICA XXVII DEL TEMPO ORDINARIO (C) – 5 Ottobre 2025

 



 

Ab 1,2-3; 2,2-4; Sal 94 (95); 2Tm 1,6-8.13-14; Lc 17,5-10.

 

La fede si attua come un gratuito e libero incontro tra Dio che si comunica e la persona umana che accoglie la sua autocomunicazione aprendosi all’azione di Dio. La fede non è credere in qualcosa, ma credere in qualcuno, in Dio salvatore. Nell’evento della nostra salvezza, l’iniziativa è sempre di Dio. La fede è quindi anzitutto un dono. Non a caso il vangelo d’oggi inizia con la supplica degli apostoli a Gesù: “Accresci in noi la fede!”. La risposta di Gesù è immediata e, come al solito, sconcertante: “Se aveste fede quanto un granello di senapa, potreste dire a questo gelso: Sràdicati e vai a piantarti nel mare, ed esso vi obbedirebbe”.

Ecco, quindi, che Gesù proclama la potenza salvatrice della fede. Gli fa eco san Giovanni quando afferma che la vittoria che ha vinto il mondo è la nostra fede (1Gv 5,4). Ma questa fede che, anche se minuscola, sarebbe capace di sradicare e trapiantare nel mare un gelso, albero gigante dalle radici difficilmente sradicabili, non è da confondersi con una tecnica con cui ottenere effetti prodigiosi come lo spostamento di una montagna o il radicamento di un albero nelle acque del mare. La potenza della fede di cui parla Gesù è la potenza di Dio che si manifesta e si sprigiona nella vita di noi credenti. La fede lascia passare sempre e solo l’azione di Dio attraverso di noi; non costringe Dio a fare quello che vogliamo noi ma permette a noi di fare quello che vuole Dio. Infatti, Gesù parla in seguito del servo che “ha eseguito gli ordini ricevuti”.

La lettura apostolica ci invita a dare una coraggiosa testimonianza della nostra fede. La fede è impegno serio, anzi talvolta una sfida, quando si devono compiere scelte importanti nella vita. La prima lettura, tratta dal libro di Abacuc, conclude affermando che colui che non ha l’animo retto soccombe, mentre “il giusto vivrà per la sua fede”. La parola “fede”, nella lingua semitica in cui si esprimeva Gesù, significa fermezza e certezza, sicurezza e fiducia. La fede non ha niente a che fare con l’angustia degli orizzonti. Non intimidisce, non riduce la voglia di vivere e di crescere che c’è in ognuno di noi ma apre a questa nuovi ed insospettabili orizzonti.

L’eucaristia è “Mistero della fede”. “La fede e i sacramenti sono due aspetti complementari della vita ecclesiale. Suscitata dall’annuncio della Parola di Dio, la fede è nutrita e cresce nell’incontro di grazia col Signore risorto che si realizza nei sacramenti” (Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 6).

domenica 28 settembre 2025

IL "SACRIFICIO" EUCARISTICO

 



 

La parola “sacrificio” non compare in nessuno dei quattro racconti dell’istituzione dell’Eucaristia e non viene mai utilizzata nel Nuovo Testamento in riferimento alla cena del Signore o alla frazione del pane.

Tuttavia, si comincerà molto presto a parlare esplicitamente di “sacrificio” in rapporto con la pratica eucaristica. Basti citare il testo della Didaché 14: “Ogni domenica, giorno del Signore, riuniti, spezzate il pane e rendete grazie, dopo che avrete confessato i vostri peccati, affinché il vostro sacrificio sia puro. Chiunque ha qualche lite con il suo compagno, non si riunisca a voi prima che si siano riconciliati, affinché non sia profano il vostro sacrificio. Questo è infatti il sacrificio di cui ha detto il Signore: In ogni luogo e in ogni tempo, mi sia offerto un sacrificio mondo (cf. Ml 1,11)”. Pian piano – soprattutto a partire dal secolo III – diventerà un fatto sempre più comune tra i cristiani parlare di “sacrificio” in riferimento all’Eucaristia, ma in realtà il senso di questo termine e il significato preciso della sua applicazione a Cristo e alla celebrazione eucaristica non saranno intesi da tutti sempre esattamente allo stesso modo lungo i secoli.

L’ambiguità della nozione di sacro, ereditata dal paganesimo, rischia di influenzare la comprensione cristiana del sacrificio eucaristico.

Il termine “sacrificio” è uno dei vocaboli meno chiari e più spesso frainteso del linguaggio (cristiano) quotidiano, e questo anche per quanto si riferisce all’espressione e all’idea cristiana del “sacrificio della croce” e quindi del “sacrificio dell’Eucaristia”.

La tradizione biblica si libera a poco a poco dell’idea pagana di un dio che bisogna placare. Si tratta non più di blandire o ammansire la divinità, ma di entrare in comunione col Dio vivente.

Il popolo giudaico non cercava, come invece faceva il popolo romano, di accattivarsi la benevolenza di dèi lontani, ma intendeva ringraziare un Dio vicino.

A partire dall’evento assolutamente nuovo della risurrezione di Gesù, i suoi discepoli riconobbero sempre più chiaramente in lui il “compimento” globale delle Scritture. I grandi temi religiosi presenti nell’Antico Testamento furono in qualche modo visti confluire nella persona e nella vicenda di Gesù, trovando in lui il loro adempimento, cioè la loro realizzazione piena e perfetta, a un livello qualitativo superiore e definitivo. La Lettera agli Ebrei – applicando a Cristo il Sal 40 (39) – dice che egli, venuto nel mondo per fare la volontà di Dio, con l’offerta di se stesso ha abolito il regime dei sacrifici antichi “per costituire quello nuovo”, che realizza pienamente, nella realtà delle cose, ciò che i sacrifici dell’Antico Testamento potevano soltanto significare come “un’ombra” (cf. Eb 10,1-10).

Il nuovo regime di cose inaugurato da Gesù Cristo consiste nel trasporre radicalmente l’ambito dell’identificazione tecnica del “sacrificio” dal piano rituale a quello esistenziale. Un’esistenza vissuta nell’amore-dedizione-obbedienza a Dio: in questo consiste il vero culto a Dio. L’offerta di se stessi nella fedeltà assoluta alla volontà di Dio: in questo consiste il vero sacrificio a lui gradito, tenendo presente che – secondo l’insegnamento di Gesù – amare Dio e cercare la sua volontà comporta per ciò stesso amare il prossimo e cercare il bene degli altri. Tale fu precisamente il sacrificio di Cristo, da lui compiuto una volta per sempre nel “tempio del suo corpo” (Gv 2,21), cioè in tutto l’ambito del suo esistere storico umano. Il sacrificio di Cristo non consiste dunque nel puro fatto della sua passione e morte in croce, ma comprende tutta la sua vita come dono di se stesso fino all’estremo limite della morte in croce.

Nel sacrificio di Cristo si trova dunque come “rovesciata” l’idea che sta alla base della concezione comune del sacrificio religioso. Nella vicenda di Gesù non è tanto “l’uomo che si accosta a Dio tributandogli un dono”, quanto piuttosto “Dio che si avvicina all’uomo” per fargli dono della sua grazia di riconciliazione e della comunione di vita con lui.

Nella cena del Signore, “memoriale” di Cristo, si celebra il sacrificio di Cristo. Se è teologicamente legittimo chiamare “sacrificio” l’evento della vita e morte di Gesù, allora diventa legittimo chiamare “sacrificio” anche il rito memoriale in cui questo evento viene celebrato e attraverso cui se ne diviene partecipi. “Annunciare la morte del Signore”, mangiando del pane e bevendo al calice dell’Eucaristia, vuol dire riconoscere e proclamare il valore salvifico della morte di Gesù in croce; vuol dire accogliere con riconoscenza nel presente il dono di Dio nel sacrificio di Cristo; ma vuol dire anche ri-presentare ogni volta al Padre quel sacrificio di se stesso che Cristo ha offerto una volta per tutte. Celebrando il memoriale del sacrificio di Cristo, si diventa partecipi di questo sacrificio, non solo nel senso che se ne ricevono i benefici di riconciliazione e di salvezza, ma anche nel senso che si viene personalmente coinvolti nel dinamismo specifico di questo sacrificio.

Il sacrificio di Cristo, così come noi lo riviviamo in ogni Eucaristia, è anzitutto dono, il dono che Egli fa di sé stesso, di cui la morte è il momento culminante ma non unico. È l’intero mistero dell’Incarnazione, dalla sua origine e lungo l’intera vita di Cristo, che sostituisce i sacrifici antichi (cf Eb 10,5-7). Quando nell’ultima Cena Gesù prende il pane e il calice del vino, è l’intera sua esistenza che Egli prende ricapitolandola in questo gesto.

Noi siamo sempre portati a pensare al sacrificio in termini di privazione, e alla nostra partecipazione al sacrificio di Cristo in termini di offerta di noi stessi. Questo non è falso. La nostra offerta, infatti, è necessaria, e richiede da parte nostra delle rinunce, delle rotture, delle privazioni, che sono per noi vere “morti”, attraverso le quali possiamo partecipare alla morte del Signore.

Si è sviluppato in passato nei nostri tempi una tendenza che finisce per accantonare le celebrazioni liturgiche (celebrazione eucaristica compresa), nella convinzione che il vero culto cristiano consista esclusivamente in un’esistenza vissuta all’insegna della solidarietà verso gli altri. Se ci fosse da scegliere tra la partecipazione alla messa e la condivisione di un pasto fraterno con poveri ed extracomunitari, alcuni cristiani preferirebbero il secondo. A loro parere, dar da mangiare all’affamato (cf. Mt 25,31-46) sarebbe meno formalistico e più evangelico che celebrare l’Eucaristia.

Prima di tutto, forse si dimentica che la celebrazione eucaristica non è una sacra rappresentazione formale ed esteriore (cf. 1Cor 11,29), ma attua una comunione profonda – sacramentale – tra esistenze reali, cioè tra l’esistenza di Cristo e l’esistenza dei cristiani (cf Gv 6,51.53-58; 1Cor 10,16-17).

In secondo luogo, coloro che pensano così probabilmente non si rendono conto del carattere illusorio del tentativo di imitare da soli la solidarietà di Cristo. Senza Cristo, non possiamo fare nulla di buono (cf. specialmente Gv 15,5). Per mezzo di lui (cf. Eb 7,25; 13,15-21; cf. anche Rm 8,34; 1Gv 2,1), invece, i cristiani siamo in grado fin d’ora di avvicinarsi a Dio (cf. Eb 4,16; 7,19-25; 10,22; 12,22-23) “in pienezza di fede” (cf. Eb 10,22; cf 4,3; 6,1; 10,39), speranza e carità (cf. Eb 10,22-24), partecipando allo stesso sacrificio di Cristo.

 

 

 

venerdì 26 settembre 2025

DOMENICA XXVI DEL TEMPO ORDINARIO (C) – 28 Settembre 2025

 


 

 

Am 6,1a.4-7; Sal 145 (146); 1Tm 6,11-16; Lc 16,19-31

 

         

La parola di Dio ripropone il tema della domenica scorsa sull’uso dei beni terreni. Gesù ci invitava a dare ad essi un valore relativo guardando ai beni definitivi e ci premuniva sull’abbaglio di cui possiamo essere vittime in questa materia quando ci ricordava che non è possibile “servire a Dio e alla ricchezza”. In questa domenica c’è un elemento in più, l’invito a condividere i nostri beni con gli altri. Il profeta Amos (prima lettura) pronuncia parole dure contro i grassi borghesi di Samaria che si godono la vita incuranti della povertà e miseria degli altri. Contro questi gaudenti il profeta prende una chiara posizione di condanna, annunciando la fine delle feste spensierate nonché il sopraggiungere della deportazione e dell’esilio. Non si tratta di una condanna della ricchezza in se stessa, ma di un severo giudizio di coloro che si servono di essa per farne strumento di corruzione e di oppressione. In questo caso, la ricchezza diventa sorgente del potere che sfrutta e opprime.

 

Sullo sfondo della dura denuncia del profeta Amos si colloca la nota parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro, narrata dal vangelo d’oggi. Vi troviamo descritte due figure contrapposte. L’uomo ricco sdraiato sui divani che banchetta lautamente. Il povero che giace alla sua porta, bramoso di sfamarsi di quello che cade dalla mensa del ricco. I cani si sono accorti della presenza del povero e vanno a leccargli le piaghe. L’epulone, invece, fa come se non esistesse. Del ricco epulone non ci viene indicato il nome. Nella cultura ebraica, il nome esprime la realtà profonda delle persone, riassume la loro storia; l’epulone non ha nome perché non ha storia. Il povero ha un nome quanto mai significativo: “Dio aiuta”. I due personaggi del racconto muoiono, e la loro sorte si capovolge: l’epulone si trova nell’inferno tra i tormenti, e Lazzaro invece viene trasferito nel banchetto celeste presieduto da Abramo. La morte non fa altro che sancire in modo definitivo e irreversibile il destino finale degli esseri umani, quel destino che ognuno di noi costruisce nella sua vita terrena. La logica di Dio non è quella del potere e del successo, ma quella della misericordia, della giustizia, dell’amore. Chi lotta per la giustizia non compie solo un’opera filantropica ma un vero e proprio atto religioso. Il castigo che il ricco epulone si merita è dovuto proprio al fatto che il suo comportamento contrasta radicalmente con la carità che è Dio. Anche san Paolo nella seconda lettura (1Tm 6,11-16) ammonisce il suo discepolo Timoteo: “tendi alla giustizia […], alla carità”.

 

Il ricco epulone e Lazzaro sono il simbolo di due ordini di persone: i gaudenti materialisti ed egoisti che limitano il loro orizzonte alla sfera presente, e quelli invece che, nella loro povertà, conducono una vita orientata verso il vero destino dell’uomo. La colletta della messa ci invita a essere come questi ultimi quando ci fa chiedere a Dio la grazia affinché, camminando verso i beni da lui promessi, “diventiamo partecipi della felicità eterna”. E l’orazione sulle offerte afferma che la “sorgente di ogni benedizione”, non è da ricercarsi nei beni materiali, ma nell’eucaristia.

domenica 21 settembre 2025

CONCILIARE AZIONI, PAROLE E TRADIZIONE

 



 

La maggior parte dei problemi in liturgia nasce laddove la tensione fra azioni, parole e tradizione perde il proprio equilibrio.

Se diciamo: “prese il pane” con l’intenzione di spezzarlo e condividerlo con i presenti, allora non è corretto sollevare un’ostia destinata a una sola persona e poi servirsi di particole preconfezionate per l’eucaristia.

Se affermiamo che si tratta di una preghiera al Padre mediante suo Figlio Gesù, ma in realtà le azioni si concentrano sull’eucaristia intesa come mera presenza del Cristo, con incenso, lunghe pause, fanfare o campanelli subito dopo le formule di istituzione, si crea una divergenza di significato tra le parole della liturgia e quel che viene percepito come l’oggetto del rito. Se stiamo cercando di essere una comunità di fedeli in cammino verso il Padre, ma poi alcune persone sono incluse e altre escluse, alcune hanno ruoli di primo piano e altre di second’ordine, quello che ne risulta non è il modello del nuovo popolo che guarda alla venuta del Regno. Se affermiamo di essere fratelli e sorelle ma poi ci comportiamo come dei singoli e anonimi consumatori, allora parole e azioni risultano divise. Potremmo moltiplicare gli esempi, ma il messaggio chiave dovrebbe essere chiaro: dobbiamo prestare attenzione a come celebriamo in quanto comunità di fede.

Non avremo mai un equilibrio perfetto – la perfezione arriverà solo alla fine dei tempi, quando non avremo più bisogno della liturgia – ma dobbiamo continuare a impegnarci per ottenerlo. La sfida è cercare di collegare parole, azioni e tradizione nella prossima eucaristia che celebreremo. La chiesa necessita sempre di riforma: ecclesia semper riformanda.

 

Fonte: Thomas O’Loughlin, Quale mensa per noi tu prepari, Queriniana, Brescia 2025, pp. 52-53.

venerdì 19 settembre 2025

DOMENICA XXV DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 21 Settembre 2025

 

 



 

 

Am 8,4-7; Sal 112 (113); 1Tm 2,1-8; Lc 16,1-13

 

           

Per bocca del profeta Amos (prima lettura), il Signore giura che non dimenticherà mai le opere inique di coloro che erano a tal punto avidi e disonesti da attendere con ansia la fine dei giorni di festa per riprendere i loro perversi affari a danno dei clienti più poveri. Le parole del profeta sembrano dire esattamente il contrario di quanto si deduce dalla parabola dell’amministratore astuto riportata dal vangelo d’oggi. Infatti, le parole conclusive della parabola (“Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza”) suscitano perplessità. Gesù propone come modello il comportamento di un amministratore disonesto, il quale davanti alla minaccia di perdere il posto non esita a falsificare i bilanci praticando sconti ai debitori del suo padrone in modo di assicurarsi poi da essi una qualche protezione. Notiamo però bene, Gesù non loda la disonestà di questo amministratore, ma la sua prontezza e scaltrezza nel prepararsi un futuro sicuro. E invita tutti gli onesti a fare altrettanto: “I figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce”. Sia il profeta Amos che Gesù ci esortano a vivere il presente guardando al futuro, a non malversare il tempo che ci viene dato per conquistare i beni eterni.

 

La nostra esistenza rischia di trascorrere come quella di bambini distratti mentre il tempo della vita scorre in fretta. Gesù biasima gli uomini indifferenti, flaccidi, amorfi, superficiali che troppo spesso costella il panorama della società del nostro tempo. Le parole di Gesù sono quindi un invito ad amministrare con saggezza e prudenza i talenti ricevuti, mettendo i beni sia materiali che spirituali al servizio del progetto che Dio ha sulla storia e sull’uomo. Gesù vuole scuotere la nostra inerzia orientando la vita di noi tutti verso i beni definitivi, verso il traguardo della salvezza. E per portare a buon termine questo compito, ci viene ricordato che non possiamo “servire a Dio e la ricchezza”. Qui il testo evangelico chiama la ricchezza con un termine di origine fenicia “mammona”, quasi per indicare la personificazione idolatrica dei beni di questo mondo che ci potrebbero offuscare il cammino che conduce ai veri beni, quelli che arricchiscono presso Dio. Solo chi ha il cuore libero dalla ricchezza di questo mondo, può essere degno della ricchezza del Regno futuro.

 

La preghiera, di cui parla la seconda lettura, è capace di incidere sui fatti della vita operando, alla luce della fede, un diverso approccio alle cose, una visione del mondo che ci aiuti a valutare le realtà della terra alla luce dei valori supremi e definitivi verso cui la nostra vita è protesa. Fedeli alla legge dell’incarnazione, preghiamo nella vita e con la vita, non fuggendo dal mondo reale. Fedeli alla legge della risurrezione, indirizziamo la nostra preghiera verso la piena realizzazione del Regno. La celebrazione dell’eucaristia è una preghiera di lode i di ringraziamento per il dono supremo della salvezza in Cristo, che viene ripresentato qui per noi, affinché “la redenzione operata da questi misteri trasformi tutta la nostra vita” (orazione dopo la comunione)

 

domenica 14 settembre 2025

UN RITO ULTRAMILLENARIO “VIETATO”?

 


 

Papa Francesco è intervenuto più volte sulla Messa in rito antico, o meglio sull’uso del Messale del 1962. Serve riavvicinarsi a chi è legato a questa modalità celebrativa?

Nella Chiesa tutti i battezzati hanno cittadinanza, se ne condividono il Credo e la morale conseguente. Nei secoli la diversità di riti celebrativi dell’unico sacrificio eucaristico non ha mai creato problema all’autorità, perché era chiara l’unità della fede. Anzi, ritengo sia una grande ricchezza la varietà dei riti nel mondo cattolico. Un rito, poi, non si compone alla scrivania, ma è il frutto di stratificazione e sedimentazione teologico-cultuale. Mi chiedo se si possa “vietare” un rito ultramillenario. Infine, se la liturgia è una fonte anche per la teologia, come vietare l’accesso alle “fonti antiche”? Sarebbe come vietare lo studio di sant’Agostino a chi volesse riflettere correttamente sulla grazia o sulla Trinità.

(Dall’intervista al Card. Robert Sarah, pubblicata nel giornale L’Avvenire del 12.09.2025).

Il card. Sarah parla di un rito ultramillenario (“vietato”), nel caso specifico, il rito romano nella sua versione del 1962. Anzitutto, il rito romano nella sua versione del 1962 non è stato vietato, ma riformato in ossequio a quanto deciso dal Concilio Vaticano II nella Costituzione Sacrosanctum Concilium. I libri liturgici del 1962 possono sempre essere adoperati come fonti anche per la teologia, e lo studioso noterà, tra l'altro, che in alcuni aspetti (nel loro linguagio verbale e non verbale) non esprimono la ecclesiologia del Vaticano II.   

venerdì 12 settembre 2025

ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE – 14 Settembre 2025

 



 

Nm 21,4b-9; Sal 77 (78); Fil 2,6-11; Gv 3,13-17

 

Il Sal 77 è uno dei più grandiosi del Salterio. Dagli avvenimenti della storia d’Israele e, in particolare, dal ricordo della misericordia di Dio e delle infedeltà del popolo, il salmo cerca di trarre insegnamenti per il presente. Alcuni Padri hanno attribuito le espressioni del Sal 77 alla storia della passione di Cristo. La liturgia del Venerdì Santo traduce il lamento del salmo nei “rimproveri” rivolti da Cristo al suo popolo infedele. I versetti ripresi dall’odierno salmo responsoriale possono essere considerati un insegnamento che Cristo rivolge alla sua Chiesa, affinché riponga la sua fiducia in Dio, non dimentichi ciò che egli ha compiuto per lei e sia fedele alla sua alleanza.

 

Le feste della santa Croce (prima del 1960 erano due: Invenzione della santa Croce [3 maggio] e Esaltazione della santa Croce [14 settembre]) nella loro origine risalgono alla dedicazione delle due basiliche fatte costruire da Costantino a Gerusalemme, una sul luogo del Calvario e l’altra su quella del sepolcro di Cristo. L’attuale festa del 14 settembre celebra la Croce come mistero di salvezza, come bene esprime il prefazio della messa: “Nel legno della Croce tu hai stabilito la salvezza dell’uomo, perché da dove sorgeva la morte di là risorgesse la vita, e chi dall’albero dell’Eden traeva vittoria, dall’albero della croce venisse sconfitto”. Le letture bibliche si muovono su questa linea.

 

La prima lettura ricorda l’infedeltà d’Israele nel deserto e la conseguente punizione di Dio che manda i serpenti velenosi, i quali causano la morte di gran numero d’Israeliti. Dopo il pentimento del popolo, Dio ordina a Mosè di fare un serpente di rame e metterlo sopra un’asta: “chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita”. Questo evento è stato interpretato dal libro della Sapienza come “segno” o “pegno” di salvezza offerto da Dio ad Israele (16,6-7).

 

La lettura evangelica riporta un brano del colloquio di Gesù con Nicodemo, in cui anche Gesù fa riferimento all’episodio del serpente nel deserto: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”. Per essere salvati, bisognerà “guardare” il Cristo, il Verbo di Dio “disceso” dal cielo e poi “innalzato” sulla Croce, bisognerà cioè credere che Egli è “l’unigenito Figlio di Dio” (Gv 3,18).  La parola “innalzato” significa, in Giovanni, tanto l’inalberamento di Cristo sul tronco della Croce, quanto la sua esaltazione gloriosa (cf. Gv 8,28; 12,32-34). La Croce è esaltazione dell’amore di Dio per noi: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito…” Perciò la colletta della messa può affermare che “con la Croce di Cristo […] abbiamo conosciuto in terra il suo mistero” di amore.

 

Anche il grandioso inno paolino della seconda lettura interpreta il mistero di Cristo attraverso lo schema: discesa, spogliazione o abbassamento (incarnazione) ed elevazione o esaltazione (morte e risurrezione). La croce è l’abisso dell’abbassamento, ma anche l’apice dell’esaltazione nella gloria pasquale. Dinanzi a questo mistero, ogni lingua deve proclamare che “Gesù Cristo è il Signore”. La Croce è l’albero della vita e noi nell’eucaristia ne cogliamo i frutti (cf. le orazioni sulle offerte e quella dopo la comunione).

domenica 7 settembre 2025

ANNO LITURGICO ED EVANGELIZZAZIONE




 

La liturgia, celebrata nel corso dell’Anno liturgico, ha una speciale efficacia per alimentare la fede dei partecipanti. Certamente l’Anno liturgico non può essere strumentalizzato e trasformato in un “programma” di evangelizzazione fatto a tavolino, né in una prima catechesi di iniziazione cristiana, perché l’Anno liturgico è il luogo dove i fedeli già convertiti e credenti, celebriamo il mistero che nutre la nostra fede (cf. SC, n. 9). In ogni modo, il ciclo annuale dei tempi e delle festività dell’Anno liturgico contiene in sé stesso una grande forza evangelizzatrice, e può diventare il luogo ideale di una permanente evangelizzazione del popolo di Dio. Infatti, quale scopo ha l’evangelizzazione? Nella prima Lettera ai Corinzi, san Paolo afferma che il Vangelo che egli ha annunciato ed i Corinzi hanno ricevuto è: “che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture…” (cf. 1Cor 15,1-5). Si tratta del mistero centrale della storia della nostra salvezza, che noi proclamiamo nel Credo.

Questa storia di salvezza è narrata dalla Bibbia e celebrata dalla liturgia. Quanto la Bibbia racconta dal Libro della Genesi a quello dell’Apocalisse, la liturgia lo ri-presenta lungo il cammino che dalla prima domenica di Avvento porta all’ultima domenica del Tempo Ordinario, e cioè l’unico piano salvifico di Dio. Nella Bibbia esso si svolge “con eventi e parole intimamente connessi tra loro, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole proclamano le opere e illuminano il mistero in esse contenuto” (Dei Verbum [DV], n. 2). Secondo i modi ad esso propri l’Anno liturgico ri-narra questo cammino, lo interpreta e lo annuncia realizzato nel mistero di Cristo, “il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione” (DV, n. 2). L’Anno liturgico conferisce quindi un particolare realismo alla parola di Dio in quanto l’attesta compiuta nel nostro oggi: “La Chiesa, specialmente nei tempi di Avvento, di Quaresima e soprattutto nella notte di Pasqua, rilegge e rivive tutti i grandi eventi della storia della salvezza nel ‘oggi’ della sua liturgia” (Catechismo della Chiesa Cattolica n.1095).

venerdì 5 settembre 2025

DOMENICA XXIII DEL TEMPO ORDINARIO (C) – 7 Settembre 2025

 



 

 

Sap 9,13-18; Sal 89 (90); Fm 9b-10.12-17; Lc 14,25-33

 

                   

Se vogliamo trovare un concetto che riassuma il messaggio delle letture bibliche odierne, possiamo dire che la parola di Dio ci propone una precisa scala di valori con la quale misurare e verificare la realtà ed essere quindi in grado di fare delle scelte sapienti. Dice Gesù nel vangelo: “Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo”. Queste parole si trovano nel contesto di una serie di affermazioni del Signore che intendono illustrare il carattere radicale che comporta la scelta di colui che intende diventare discepolo di Gesù. Diventare discepolo di Gesù, essere cristiano significa fare una precisa scelta di campo. Gesù vuol essere scelto come valore assoluto e determinante della vita dei suoi discepoli. La serietà della sequela di Gesù comporta un investimento di tutto il proprio essere a livello esistenziale; è quindi una scelta che la si può portare a termine solo se si è disposti a una totale donazione di sé, un totale amore per il Cristo; è una scelta che richiede una totale libertà interiore.

 

Il messaggio evangelico sconvolge i nostri abituali schemi mentali. Come è stato per Filèmone, un ricco signore, divenuto cristiano per opera di Paolo che lo chiama suo diletto e suo collaboratore (cf seconda lettura). L’apostolo si rivolge a questo suo discepolo e gli chiede che accolga Onèsimo, schiavo che era fuggito da Filèmone rubandogli del denaro, e lo riceva “non più però come schiavo” ma “come fratello carissimo”. Ciò che Paolo chiede a Filèmone è un grosso strappo con la mentalità e il diritto del tempo. E tutto questo in fedeltà ai valori del Vangelo. Prima e fondamentale conseguenza della sequela è la scoperta che nel Cristo siamo e diventiamo tutti fratelli. Paolo non affronta direttamente il problema della schiavitù; pone però principi e gesti concreti che sono in grado di contestare ed eliminare ogni ingiustizia e quindi la stessa schiavitù.

 

Ma come è possibile conformare la nostra vita alla logica del Vangelo, alla scala di valori proposta da Gesù? La prima lettura è un brano di una meditazione di Salomone sull’incapacità dell’uomo a capire la volontà di Dio. Nella ricerca di Dio la nostra mente si perde negli spazi infiniti di un mistero che l’intelligenza umana non riesce a contenere. I pensieri di Dio non coincidono con quelli degli uomini: tra loro c’è una differenza abissale. È quello che si percepisce quando si intende cogliere il messaggio radicale del Vangelo e la scala di valori in esso racchiusa. Come l’autore del brano della Sapienza, anche noi siamo chiamati a porci umilmente di fronte a questo mistero per poter accogliere l’unica parola che illumina e che salva. È Dio stesso che ci guida con la sua Sapienza, e cioè con lo Spirito di Cristo che ci è stato dato. Cristo, Sapienza del Padre, si comunica a noi soprattutto “alla mensa della parola e del pane di vita” (orazione dopo la comunione).

 

 

venerdì 1 agosto 2025

MEDITAZIONE ESTIVA

 

Con la morte di papa Francesco e l’elezione di papa Leone XIV, si sono risvegliati i dibattiti sull’uso della liturgia di Pio V nella sua edizione del 1962. Ripropongo ai miei lettori, come meditazione estiva, quanto avevo scritto quattro anni fa.  

 

LE APORIE DI “SUMMORUM PONTIFICUM”

 

In questo blog e altrove, ho più volte segnalato i punti deboli o, mi si permetta di chiamarli, le “aporie” del Motu proprio “Summorum Pontificum” [SP] con la Lettera ai vescovi che l’accompagna. Dopo la pubblicazione del Motu proprio “Traditionis custodes”, queste aporie acquistano una maggior evidenza.

1. Si afferma che il Messale del 1962 “non fu mai giuridicamente abrogato”. È un’affermazione che contraddice quanto ripetutamente aveva detto Paolo VI. D’altra parte, esiste il Pontificio Consiglio per i testi legislativi, “la cui funzione consiste soprattutto nella interpretazione delle leggi della Chiesa”, e non consta che questo Consiglio si abbia pronunciato al riguardo.

2. Si riconosce, citando SC 22, che “ogni vescovo è il moderatore della liturgia nella propria diocesi”. D’altra parte, però si sottrae al vescovo la possibilità di regolare l’uso del Messale del 1962. A tal punto che la Conferenza dei vescovi della Francia nella risposta al formulario sull’applicazione del Motu proprio SP inviato dalla Congregazione per la dottrina della fede, dice, tra l’altro, che “l’autorità dei vescovi su queste comunità (che celebrano col Messale del 1962) è quasi nulla”.

3. SP introduce accanto alla “forma ordinaria” del rito romano (la riforma di Paolo VI) una “forma straordinaria” dello stesso rito romano (la liturgia del 1962). Rimane incomprensibile come due Liturgie, con ordinamento di letture diverso, calendari differenti, testi diversi nei Tempi centrali dell’Anno liturgico, come cioè due forme espressive diverse della lex orandi possano realmente armonizzarsi con una lex credendi della Chiesa. Ciò si può sostenere soltanto se non è il rito in sé ma il significato del rito a confrontarsi con la lex orandi. In questo modo verrebbe meno una visione teologica che è maturata nel corso del Movimento liturgico e svanirebbe una fattiva acquisizione della teologia liturgica postconciliare.

4. Si afferma che “le due forme dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda”. Affermazione ambigua che qualche anno fa ha ispirato ad un Emmo. Cardinale la proposta di aggiungere nell’offertorio del Messale paolino le preghiere (ad libitum) dell’offertorio del Messale del 1962.

5. “Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande”. Questa solenne affermazione, come è stato notato anche recentemente, è un principio che scatena una vera e propria anarchia, perché si può applicare non solo al Messale del 1962, ma ad altre espressioni rituali precedenti. Infatti, è noto che alcuni gruppi che adoperano il Messale del 1962 non accettano il Triduo pasquale riformato da Pio XII in esso inserito e, nell’occasione, adoperano una edizione del Messale anteriore a tale riforma.

6. Sembra chiaro che i criteri con cui la Lettera del 7 luglio 2007 giustifica il ripristino della liturgia del 1962 sono di carattere soggettivo (desiderio, forma a loro cara, sentirsi attirati, forma appropriata per loro…). Diverso è il criterio che il card. Joseph Ratzinger nel 2001, al tempo Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, esprimeva quando affermava: “Se l'ecclesialità diventa una questione di libera scelta, se ci sono nella Chiesa delle chiese rituali scelte secondo un criterio soggettivo, questo diventa un problema. La Chiesa è costruita sui vescovi secondo la successione apostolica, nella forma di Chiese locali, quindi con un criterio oggettivo. Io mi trovo in questa Chiesa locale e non cerco i miei amici, incontro i miei fratelli e le mie sorelle; i fratelli e le sorelle non si cercano, si incontrano” (Autour de la question liturgique. Avec le Cardinal Ratzinger, Actes des Journées liturgiques de Fontgombault 22-24 Juillet 2001, Association Petrus a Stella, Fontgombault, 2001). Permettere di scegliere “à la carte” la propria tradizione rituale è un modo di ferire gravemente l’unità e la struttura della Chiesa. Il problema non è solo rituale, ma ecclesiologico.