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domenica 28 settembre 2025

IL "SACRIFICIO" EUCARISTICO

 



 

La parola “sacrificio” non compare in nessuno dei quattro racconti dell’istituzione dell’Eucaristia e non viene mai utilizzata nel Nuovo Testamento in riferimento alla cena del Signore o alla frazione del pane.

Tuttavia, si comincerà molto presto a parlare esplicitamente di “sacrificio” in rapporto con la pratica eucaristica. Basti citare il testo della Didaché 14: “Ogni domenica, giorno del Signore, riuniti, spezzate il pane e rendete grazie, dopo che avrete confessato i vostri peccati, affinché il vostro sacrificio sia puro. Chiunque ha qualche lite con il suo compagno, non si riunisca a voi prima che si siano riconciliati, affinché non sia profano il vostro sacrificio. Questo è infatti il sacrificio di cui ha detto il Signore: In ogni luogo e in ogni tempo, mi sia offerto un sacrificio mondo (cf. Ml 1,11)”. Pian piano – soprattutto a partire dal secolo III – diventerà un fatto sempre più comune tra i cristiani parlare di “sacrificio” in riferimento all’Eucaristia, ma in realtà il senso di questo termine e il significato preciso della sua applicazione a Cristo e alla celebrazione eucaristica non saranno intesi da tutti sempre esattamente allo stesso modo lungo i secoli.

L’ambiguità della nozione di sacro, ereditata dal paganesimo, rischia di influenzare la comprensione cristiana del sacrificio eucaristico.

Il termine “sacrificio” è uno dei vocaboli meno chiari e più spesso frainteso del linguaggio (cristiano) quotidiano, e questo anche per quanto si riferisce all’espressione e all’idea cristiana del “sacrificio della croce” e quindi del “sacrificio dell’Eucaristia”.

La tradizione biblica si libera a poco a poco dell’idea pagana di un dio che bisogna placare. Si tratta non più di blandire o ammansire la divinità, ma di entrare in comunione col Dio vivente.

Il popolo giudaico non cercava, come invece faceva il popolo romano, di accattivarsi la benevolenza di dèi lontani, ma intendeva ringraziare un Dio vicino.

A partire dall’evento assolutamente nuovo della risurrezione di Gesù, i suoi discepoli riconobbero sempre più chiaramente in lui il “compimento” globale delle Scritture. I grandi temi religiosi presenti nell’Antico Testamento furono in qualche modo visti confluire nella persona e nella vicenda di Gesù, trovando in lui il loro adempimento, cioè la loro realizzazione piena e perfetta, a un livello qualitativo superiore e definitivo. La Lettera agli Ebrei – applicando a Cristo il Sal 40 (39) – dice che egli, venuto nel mondo per fare la volontà di Dio, con l’offerta di se stesso ha abolito il regime dei sacrifici antichi “per costituire quello nuovo”, che realizza pienamente, nella realtà delle cose, ciò che i sacrifici dell’Antico Testamento potevano soltanto significare come “un’ombra” (cf. Eb 10,1-10).

Il nuovo regime di cose inaugurato da Gesù Cristo consiste nel trasporre radicalmente l’ambito dell’identificazione tecnica del “sacrificio” dal piano rituale a quello esistenziale. Un’esistenza vissuta nell’amore-dedizione-obbedienza a Dio: in questo consiste il vero culto a Dio. L’offerta di se stessi nella fedeltà assoluta alla volontà di Dio: in questo consiste il vero sacrificio a lui gradito, tenendo presente che – secondo l’insegnamento di Gesù – amare Dio e cercare la sua volontà comporta per ciò stesso amare il prossimo e cercare il bene degli altri. Tale fu precisamente il sacrificio di Cristo, da lui compiuto una volta per sempre nel “tempio del suo corpo” (Gv 2,21), cioè in tutto l’ambito del suo esistere storico umano. Il sacrificio di Cristo non consiste dunque nel puro fatto della sua passione e morte in croce, ma comprende tutta la sua vita come dono di se stesso fino all’estremo limite della morte in croce.

Nel sacrificio di Cristo si trova dunque come “rovesciata” l’idea che sta alla base della concezione comune del sacrificio religioso. Nella vicenda di Gesù non è tanto “l’uomo che si accosta a Dio tributandogli un dono”, quanto piuttosto “Dio che si avvicina all’uomo” per fargli dono della sua grazia di riconciliazione e della comunione di vita con lui.

Nella cena del Signore, “memoriale” di Cristo, si celebra il sacrificio di Cristo. Se è teologicamente legittimo chiamare “sacrificio” l’evento della vita e morte di Gesù, allora diventa legittimo chiamare “sacrificio” anche il rito memoriale in cui questo evento viene celebrato e attraverso cui se ne diviene partecipi. “Annunciare la morte del Signore”, mangiando del pane e bevendo al calice dell’Eucaristia, vuol dire riconoscere e proclamare il valore salvifico della morte di Gesù in croce; vuol dire accogliere con riconoscenza nel presente il dono di Dio nel sacrificio di Cristo; ma vuol dire anche ri-presentare ogni volta al Padre quel sacrificio di se stesso che Cristo ha offerto una volta per tutte. Celebrando il memoriale del sacrificio di Cristo, si diventa partecipi di questo sacrificio, non solo nel senso che se ne ricevono i benefici di riconciliazione e di salvezza, ma anche nel senso che si viene personalmente coinvolti nel dinamismo specifico di questo sacrificio.

Il sacrificio di Cristo, così come noi lo riviviamo in ogni Eucaristia, è anzitutto dono, il dono che Egli fa di sé stesso, di cui la morte è il momento culminante ma non unico. È l’intero mistero dell’Incarnazione, dalla sua origine e lungo l’intera vita di Cristo, che sostituisce i sacrifici antichi (cf Eb 10,5-7). Quando nell’ultima Cena Gesù prende il pane e il calice del vino, è l’intera sua esistenza che Egli prende ricapitolandola in questo gesto.

Noi siamo sempre portati a pensare al sacrificio in termini di privazione, e alla nostra partecipazione al sacrificio di Cristo in termini di offerta di noi stessi. Questo non è falso. La nostra offerta, infatti, è necessaria, e richiede da parte nostra delle rinunce, delle rotture, delle privazioni, che sono per noi vere “morti”, attraverso le quali possiamo partecipare alla morte del Signore.

Si è sviluppato in passato nei nostri tempi una tendenza che finisce per accantonare le celebrazioni liturgiche (celebrazione eucaristica compresa), nella convinzione che il vero culto cristiano consista esclusivamente in un’esistenza vissuta all’insegna della solidarietà verso gli altri. Se ci fosse da scegliere tra la partecipazione alla messa e la condivisione di un pasto fraterno con poveri ed extracomunitari, alcuni cristiani preferirebbero il secondo. A loro parere, dar da mangiare all’affamato (cf. Mt 25,31-46) sarebbe meno formalistico e più evangelico che celebrare l’Eucaristia.

Prima di tutto, forse si dimentica che la celebrazione eucaristica non è una sacra rappresentazione formale ed esteriore (cf. 1Cor 11,29), ma attua una comunione profonda – sacramentale – tra esistenze reali, cioè tra l’esistenza di Cristo e l’esistenza dei cristiani (cf Gv 6,51.53-58; 1Cor 10,16-17).

In secondo luogo, coloro che pensano così probabilmente non si rendono conto del carattere illusorio del tentativo di imitare da soli la solidarietà di Cristo. Senza Cristo, non possiamo fare nulla di buono (cf. specialmente Gv 15,5). Per mezzo di lui (cf. Eb 7,25; 13,15-21; cf. anche Rm 8,34; 1Gv 2,1), invece, i cristiani siamo in grado fin d’ora di avvicinarsi a Dio (cf. Eb 4,16; 7,19-25; 10,22; 12,22-23) “in pienezza di fede” (cf. Eb 10,22; cf 4,3; 6,1; 10,39), speranza e carità (cf. Eb 10,22-24), partecipando allo stesso sacrificio di Cristo.

 

 

 

venerdì 26 settembre 2025

DOMENICA XXVI DEL TEMPO ORDINARIO (C) – 28 Settembre 2025

 


 

 

Am 6,1a.4-7; Sal 145 (146); 1Tm 6,11-16; Lc 16,19-31

 

         

La parola di Dio ripropone il tema della domenica scorsa sull’uso dei beni terreni. Gesù ci invitava a dare ad essi un valore relativo guardando ai beni definitivi e ci premuniva sull’abbaglio di cui possiamo essere vittime in questa materia quando ci ricordava che non è possibile “servire a Dio e alla ricchezza”. In questa domenica c’è un elemento in più, l’invito a condividere i nostri beni con gli altri. Il profeta Amos (prima lettura) pronuncia parole dure contro i grassi borghesi di Samaria che si godono la vita incuranti della povertà e miseria degli altri. Contro questi gaudenti il profeta prende una chiara posizione di condanna, annunciando la fine delle feste spensierate nonché il sopraggiungere della deportazione e dell’esilio. Non si tratta di una condanna della ricchezza in se stessa, ma di un severo giudizio di coloro che si servono di essa per farne strumento di corruzione e di oppressione. In questo caso, la ricchezza diventa sorgente del potere che sfrutta e opprime.

 

Sullo sfondo della dura denuncia del profeta Amos si colloca la nota parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro, narrata dal vangelo d’oggi. Vi troviamo descritte due figure contrapposte. L’uomo ricco sdraiato sui divani che banchetta lautamente. Il povero che giace alla sua porta, bramoso di sfamarsi di quello che cade dalla mensa del ricco. I cani si sono accorti della presenza del povero e vanno a leccargli le piaghe. L’epulone, invece, fa come se non esistesse. Del ricco epulone non ci viene indicato il nome. Nella cultura ebraica, il nome esprime la realtà profonda delle persone, riassume la loro storia; l’epulone non ha nome perché non ha storia. Il povero ha un nome quanto mai significativo: “Dio aiuta”. I due personaggi del racconto muoiono, e la loro sorte si capovolge: l’epulone si trova nell’inferno tra i tormenti, e Lazzaro invece viene trasferito nel banchetto celeste presieduto da Abramo. La morte non fa altro che sancire in modo definitivo e irreversibile il destino finale degli esseri umani, quel destino che ognuno di noi costruisce nella sua vita terrena. La logica di Dio non è quella del potere e del successo, ma quella della misericordia, della giustizia, dell’amore. Chi lotta per la giustizia non compie solo un’opera filantropica ma un vero e proprio atto religioso. Il castigo che il ricco epulone si merita è dovuto proprio al fatto che il suo comportamento contrasta radicalmente con la carità che è Dio. Anche san Paolo nella seconda lettura (1Tm 6,11-16) ammonisce il suo discepolo Timoteo: “tendi alla giustizia […], alla carità”.

 

Il ricco epulone e Lazzaro sono il simbolo di due ordini di persone: i gaudenti materialisti ed egoisti che limitano il loro orizzonte alla sfera presente, e quelli invece che, nella loro povertà, conducono una vita orientata verso il vero destino dell’uomo. La colletta della messa ci invita a essere come questi ultimi quando ci fa chiedere a Dio la grazia affinché, camminando verso i beni da lui promessi, “diventiamo partecipi della felicità eterna”. E l’orazione sulle offerte afferma che la “sorgente di ogni benedizione”, non è da ricercarsi nei beni materiali, ma nell’eucaristia.

domenica 21 settembre 2025

CONCILIARE AZIONI, PAROLE E TRADIZIONE

 



 

La maggior parte dei problemi in liturgia nasce laddove la tensione fra azioni, parole e tradizione perde il proprio equilibrio.

Se diciamo: “prese il pane” con l’intenzione di spezzarlo e condividerlo con i presenti, allora non è corretto sollevare un’ostia destinata a una sola persona e poi servirsi di particole preconfezionate per l’eucaristia.

Se affermiamo che si tratta di una preghiera al Padre mediante suo Figlio Gesù, ma in realtà le azioni si concentrano sull’eucaristia intesa come mera presenza del Cristo, con incenso, lunghe pause, fanfare o campanelli subito dopo le formule di istituzione, si crea una divergenza di significato tra le parole della liturgia e quel che viene percepito come l’oggetto del rito. Se stiamo cercando di essere una comunità di fedeli in cammino verso il Padre, ma poi alcune persone sono incluse e altre escluse, alcune hanno ruoli di primo piano e altre di second’ordine, quello che ne risulta non è il modello del nuovo popolo che guarda alla venuta del Regno. Se affermiamo di essere fratelli e sorelle ma poi ci comportiamo come dei singoli e anonimi consumatori, allora parole e azioni risultano divise. Potremmo moltiplicare gli esempi, ma il messaggio chiave dovrebbe essere chiaro: dobbiamo prestare attenzione a come celebriamo in quanto comunità di fede.

Non avremo mai un equilibrio perfetto – la perfezione arriverà solo alla fine dei tempi, quando non avremo più bisogno della liturgia – ma dobbiamo continuare a impegnarci per ottenerlo. La sfida è cercare di collegare parole, azioni e tradizione nella prossima eucaristia che celebreremo. La chiesa necessita sempre di riforma: ecclesia semper riformanda.

 

Fonte: Thomas O’Loughlin, Quale mensa per noi tu prepari, Queriniana, Brescia 2025, pp. 52-53.

venerdì 19 settembre 2025

DOMENICA XXV DEL TEMPO ORDINARIO ( C ) – 21 Settembre 2025

 

 



 

 

Am 8,4-7; Sal 112 (113); 1Tm 2,1-8; Lc 16,1-13

 

           

Per bocca del profeta Amos (prima lettura), il Signore giura che non dimenticherà mai le opere inique di coloro che erano a tal punto avidi e disonesti da attendere con ansia la fine dei giorni di festa per riprendere i loro perversi affari a danno dei clienti più poveri. Le parole del profeta sembrano dire esattamente il contrario di quanto si deduce dalla parabola dell’amministratore astuto riportata dal vangelo d’oggi. Infatti, le parole conclusive della parabola (“Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza”) suscitano perplessità. Gesù propone come modello il comportamento di un amministratore disonesto, il quale davanti alla minaccia di perdere il posto non esita a falsificare i bilanci praticando sconti ai debitori del suo padrone in modo di assicurarsi poi da essi una qualche protezione. Notiamo però bene, Gesù non loda la disonestà di questo amministratore, ma la sua prontezza e scaltrezza nel prepararsi un futuro sicuro. E invita tutti gli onesti a fare altrettanto: “I figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce”. Sia il profeta Amos che Gesù ci esortano a vivere il presente guardando al futuro, a non malversare il tempo che ci viene dato per conquistare i beni eterni.

 

La nostra esistenza rischia di trascorrere come quella di bambini distratti mentre il tempo della vita scorre in fretta. Gesù biasima gli uomini indifferenti, flaccidi, amorfi, superficiali che troppo spesso costella il panorama della società del nostro tempo. Le parole di Gesù sono quindi un invito ad amministrare con saggezza e prudenza i talenti ricevuti, mettendo i beni sia materiali che spirituali al servizio del progetto che Dio ha sulla storia e sull’uomo. Gesù vuole scuotere la nostra inerzia orientando la vita di noi tutti verso i beni definitivi, verso il traguardo della salvezza. E per portare a buon termine questo compito, ci viene ricordato che non possiamo “servire a Dio e la ricchezza”. Qui il testo evangelico chiama la ricchezza con un termine di origine fenicia “mammona”, quasi per indicare la personificazione idolatrica dei beni di questo mondo che ci potrebbero offuscare il cammino che conduce ai veri beni, quelli che arricchiscono presso Dio. Solo chi ha il cuore libero dalla ricchezza di questo mondo, può essere degno della ricchezza del Regno futuro.

 

La preghiera, di cui parla la seconda lettura, è capace di incidere sui fatti della vita operando, alla luce della fede, un diverso approccio alle cose, una visione del mondo che ci aiuti a valutare le realtà della terra alla luce dei valori supremi e definitivi verso cui la nostra vita è protesa. Fedeli alla legge dell’incarnazione, preghiamo nella vita e con la vita, non fuggendo dal mondo reale. Fedeli alla legge della risurrezione, indirizziamo la nostra preghiera verso la piena realizzazione del Regno. La celebrazione dell’eucaristia è una preghiera di lode i di ringraziamento per il dono supremo della salvezza in Cristo, che viene ripresentato qui per noi, affinché “la redenzione operata da questi misteri trasformi tutta la nostra vita” (orazione dopo la comunione)

 

domenica 14 settembre 2025

UN RITO ULTRAMILLENARIO “VIETATO”?

 


 

Papa Francesco è intervenuto più volte sulla Messa in rito antico, o meglio sull’uso del Messale del 1962. Serve riavvicinarsi a chi è legato a questa modalità celebrativa?

Nella Chiesa tutti i battezzati hanno cittadinanza, se ne condividono il Credo e la morale conseguente. Nei secoli la diversità di riti celebrativi dell’unico sacrificio eucaristico non ha mai creato problema all’autorità, perché era chiara l’unità della fede. Anzi, ritengo sia una grande ricchezza la varietà dei riti nel mondo cattolico. Un rito, poi, non si compone alla scrivania, ma è il frutto di stratificazione e sedimentazione teologico-cultuale. Mi chiedo se si possa “vietare” un rito ultramillenario. Infine, se la liturgia è una fonte anche per la teologia, come vietare l’accesso alle “fonti antiche”? Sarebbe come vietare lo studio di sant’Agostino a chi volesse riflettere correttamente sulla grazia o sulla Trinità.

(Dall’intervista al Card. Robert Sarah, pubblicata nel giornale L’Avvenire del 12.09.2025).

Il card. Sarah parla di un rito ultramillenario (“vietato”), nel caso specifico, il rito romano nella sua versione del 1962. Anzitutto, il rito romano nella sua versione del 1962 non è stato vietato, ma riformato in ossequio a quanto deciso dal Concilio Vaticano II nella Costituzione Sacrosanctum Concilium. I libri liturgici del 1962 possono sempre essere adoperati come fonti anche per la teologia, e lo studioso noterà, tra l'altro, che in alcuni aspetti (nel loro linguagio verbale e non verbale) non esprimono la ecclesiologia del Vaticano II.   

venerdì 12 settembre 2025

ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE – 14 Settembre 2025

 



 

Nm 21,4b-9; Sal 77 (78); Fil 2,6-11; Gv 3,13-17

 

Il Sal 77 è uno dei più grandiosi del Salterio. Dagli avvenimenti della storia d’Israele e, in particolare, dal ricordo della misericordia di Dio e delle infedeltà del popolo, il salmo cerca di trarre insegnamenti per il presente. Alcuni Padri hanno attribuito le espressioni del Sal 77 alla storia della passione di Cristo. La liturgia del Venerdì Santo traduce il lamento del salmo nei “rimproveri” rivolti da Cristo al suo popolo infedele. I versetti ripresi dall’odierno salmo responsoriale possono essere considerati un insegnamento che Cristo rivolge alla sua Chiesa, affinché riponga la sua fiducia in Dio, non dimentichi ciò che egli ha compiuto per lei e sia fedele alla sua alleanza.

 

Le feste della santa Croce (prima del 1960 erano due: Invenzione della santa Croce [3 maggio] e Esaltazione della santa Croce [14 settembre]) nella loro origine risalgono alla dedicazione delle due basiliche fatte costruire da Costantino a Gerusalemme, una sul luogo del Calvario e l’altra su quella del sepolcro di Cristo. L’attuale festa del 14 settembre celebra la Croce come mistero di salvezza, come bene esprime il prefazio della messa: “Nel legno della Croce tu hai stabilito la salvezza dell’uomo, perché da dove sorgeva la morte di là risorgesse la vita, e chi dall’albero dell’Eden traeva vittoria, dall’albero della croce venisse sconfitto”. Le letture bibliche si muovono su questa linea.

 

La prima lettura ricorda l’infedeltà d’Israele nel deserto e la conseguente punizione di Dio che manda i serpenti velenosi, i quali causano la morte di gran numero d’Israeliti. Dopo il pentimento del popolo, Dio ordina a Mosè di fare un serpente di rame e metterlo sopra un’asta: “chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita”. Questo evento è stato interpretato dal libro della Sapienza come “segno” o “pegno” di salvezza offerto da Dio ad Israele (16,6-7).

 

La lettura evangelica riporta un brano del colloquio di Gesù con Nicodemo, in cui anche Gesù fa riferimento all’episodio del serpente nel deserto: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”. Per essere salvati, bisognerà “guardare” il Cristo, il Verbo di Dio “disceso” dal cielo e poi “innalzato” sulla Croce, bisognerà cioè credere che Egli è “l’unigenito Figlio di Dio” (Gv 3,18).  La parola “innalzato” significa, in Giovanni, tanto l’inalberamento di Cristo sul tronco della Croce, quanto la sua esaltazione gloriosa (cf. Gv 8,28; 12,32-34). La Croce è esaltazione dell’amore di Dio per noi: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito…” Perciò la colletta della messa può affermare che “con la Croce di Cristo […] abbiamo conosciuto in terra il suo mistero” di amore.

 

Anche il grandioso inno paolino della seconda lettura interpreta il mistero di Cristo attraverso lo schema: discesa, spogliazione o abbassamento (incarnazione) ed elevazione o esaltazione (morte e risurrezione). La croce è l’abisso dell’abbassamento, ma anche l’apice dell’esaltazione nella gloria pasquale. Dinanzi a questo mistero, ogni lingua deve proclamare che “Gesù Cristo è il Signore”. La Croce è l’albero della vita e noi nell’eucaristia ne cogliamo i frutti (cf. le orazioni sulle offerte e quella dopo la comunione).

domenica 7 settembre 2025

ANNO LITURGICO ED EVANGELIZZAZIONE




 

La liturgia, celebrata nel corso dell’Anno liturgico, ha una speciale efficacia per alimentare la fede dei partecipanti. Certamente l’Anno liturgico non può essere strumentalizzato e trasformato in un “programma” di evangelizzazione fatto a tavolino, né in una prima catechesi di iniziazione cristiana, perché l’Anno liturgico è il luogo dove i fedeli già convertiti e credenti, celebriamo il mistero che nutre la nostra fede (cf. SC, n. 9). In ogni modo, il ciclo annuale dei tempi e delle festività dell’Anno liturgico contiene in sé stesso una grande forza evangelizzatrice, e può diventare il luogo ideale di una permanente evangelizzazione del popolo di Dio. Infatti, quale scopo ha l’evangelizzazione? Nella prima Lettera ai Corinzi, san Paolo afferma che il Vangelo che egli ha annunciato ed i Corinzi hanno ricevuto è: “che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture…” (cf. 1Cor 15,1-5). Si tratta del mistero centrale della storia della nostra salvezza, che noi proclamiamo nel Credo.

Questa storia di salvezza è narrata dalla Bibbia e celebrata dalla liturgia. Quanto la Bibbia racconta dal Libro della Genesi a quello dell’Apocalisse, la liturgia lo ri-presenta lungo il cammino che dalla prima domenica di Avvento porta all’ultima domenica del Tempo Ordinario, e cioè l’unico piano salvifico di Dio. Nella Bibbia esso si svolge “con eventi e parole intimamente connessi tra loro, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole proclamano le opere e illuminano il mistero in esse contenuto” (Dei Verbum [DV], n. 2). Secondo i modi ad esso propri l’Anno liturgico ri-narra questo cammino, lo interpreta e lo annuncia realizzato nel mistero di Cristo, “il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione” (DV, n. 2). L’Anno liturgico conferisce quindi un particolare realismo alla parola di Dio in quanto l’attesta compiuta nel nostro oggi: “La Chiesa, specialmente nei tempi di Avvento, di Quaresima e soprattutto nella notte di Pasqua, rilegge e rivive tutti i grandi eventi della storia della salvezza nel ‘oggi’ della sua liturgia” (Catechismo della Chiesa Cattolica n.1095).

venerdì 5 settembre 2025

DOMENICA XXIII DEL TEMPO ORDINARIO (C) – 7 Settembre 2025

 



 

 

Sap 9,13-18; Sal 89 (90); Fm 9b-10.12-17; Lc 14,25-33

 

                   

Se vogliamo trovare un concetto che riassuma il messaggio delle letture bibliche odierne, possiamo dire che la parola di Dio ci propone una precisa scala di valori con la quale misurare e verificare la realtà ed essere quindi in grado di fare delle scelte sapienti. Dice Gesù nel vangelo: “Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo”. Queste parole si trovano nel contesto di una serie di affermazioni del Signore che intendono illustrare il carattere radicale che comporta la scelta di colui che intende diventare discepolo di Gesù. Diventare discepolo di Gesù, essere cristiano significa fare una precisa scelta di campo. Gesù vuol essere scelto come valore assoluto e determinante della vita dei suoi discepoli. La serietà della sequela di Gesù comporta un investimento di tutto il proprio essere a livello esistenziale; è quindi una scelta che la si può portare a termine solo se si è disposti a una totale donazione di sé, un totale amore per il Cristo; è una scelta che richiede una totale libertà interiore.

 

Il messaggio evangelico sconvolge i nostri abituali schemi mentali. Come è stato per Filèmone, un ricco signore, divenuto cristiano per opera di Paolo che lo chiama suo diletto e suo collaboratore (cf seconda lettura). L’apostolo si rivolge a questo suo discepolo e gli chiede che accolga Onèsimo, schiavo che era fuggito da Filèmone rubandogli del denaro, e lo riceva “non più però come schiavo” ma “come fratello carissimo”. Ciò che Paolo chiede a Filèmone è un grosso strappo con la mentalità e il diritto del tempo. E tutto questo in fedeltà ai valori del Vangelo. Prima e fondamentale conseguenza della sequela è la scoperta che nel Cristo siamo e diventiamo tutti fratelli. Paolo non affronta direttamente il problema della schiavitù; pone però principi e gesti concreti che sono in grado di contestare ed eliminare ogni ingiustizia e quindi la stessa schiavitù.

 

Ma come è possibile conformare la nostra vita alla logica del Vangelo, alla scala di valori proposta da Gesù? La prima lettura è un brano di una meditazione di Salomone sull’incapacità dell’uomo a capire la volontà di Dio. Nella ricerca di Dio la nostra mente si perde negli spazi infiniti di un mistero che l’intelligenza umana non riesce a contenere. I pensieri di Dio non coincidono con quelli degli uomini: tra loro c’è una differenza abissale. È quello che si percepisce quando si intende cogliere il messaggio radicale del Vangelo e la scala di valori in esso racchiusa. Come l’autore del brano della Sapienza, anche noi siamo chiamati a porci umilmente di fronte a questo mistero per poter accogliere l’unica parola che illumina e che salva. È Dio stesso che ci guida con la sua Sapienza, e cioè con lo Spirito di Cristo che ci è stato dato. Cristo, Sapienza del Padre, si comunica a noi soprattutto “alla mensa della parola e del pane di vita” (orazione dopo la comunione).