Translate

giovedì 3 novembre 2016

Comunione in bocca o sulla mano


 

Il tema della comunione in bocca o sulla mano continua ad essere un “tormentone” nei blog e in altri mezzi simili di comunicazione. Se ne è occupato più volte l’agenzia Zenit, anche recentemente; il blog Messainlatino non si risparmia nelle critiche alla comunione sulla mano; Don Giorgio Maffei parla addirittura del “sacrilegio della comunione sulla mano” (http://www.preghiereagesuemaria.it/sala/storia%20della%20comunione%20sulla%20mano.htm); altri considerano la comunione sulla mano un abuso.
 
Credo che tutti sanno quale sia la normativa liturgica in materia, che permette le due modalità. Più volte mi sono occupato di questo argomento, soprattutto nello studio pubblicato anni fa nella rivista Ecclesia Orans (“A proposito della comunione sulla mano”, in Ecclesia Orans 8 [1991] 293-304). Riprendo, in seguito, un post dal blog Controapologetica (3.11.2016) che, nonostante qualche imprecisione e ambiguità, ha una certa originalità (http://www.controapologetica.info/testi.php?sottotitolo=Comunione%20in%20bocca%20o%20nella%20mano)

 
 

Tra le questioni minori legate alla tematica del passaggio delle sacre specie nel tubo digerente del fedele, ve n’è una che riguarda la pratica liturgico-pastorale del sacramento. È la questione della liceità – o  quanto meno opportunità - di ricevere l’ostia nella mano anziché direttamente in bocca (si parla anche, rispettivamente, di comunione “sulla mano” o “sulla lingua”).

 

Si tratta di una disputa antichissima, divenuta però di grande attualità nel periodo postconciliare, quando si sono fatte insistenti le pressioni per la “liberalizzazione” della comunione sulla lingua. Nonostante la dichiarata ostilità di Paolo VI alla nuova prassi (v. l’istruzione Memoriale Domini, del 1969), la CEI nel 1989 ha ufficialmente stabilito che “accanto all’uso della Comunione sulla lingua, la Chiesa permette di dare l’Eucaristia deponendola sulle mani dei fedeli”.

 

La controversia ha risvolti dogmatici, e ha praticamente spaccato in due la Chiesa. Ciascuno dei due partiti avversi elenca puntigliosamente, a sostegno della propria tesi, tutta una serie di argomentazioni di ordine storico, teologico, pastorale, e perfino igienico (“la comunione in bocca crea il pericolo che il sacerdote tocchi la lingua del fedele e contamini così le ostie distribuite successivamente”; “no, se questo dovesse capitare il sacerdote può provvedere rapidamente a pulire la mano; l’Aids non si trasmette attraverso la saliva; molto più contaminante è il contatto della mano con maniglie, banconote, mani di altre persone, ecc.”).

Noi non entriamo nel merito della disputa. Ci limitiamo a mettere in evidenza un paio di aspetti della questione che hanno attinenza coi temi che abbiamo trattato.

 

Il primo riguarda il problema della metabolizzazione delle specie eucaristiche. È singolare infatti che a sostegno della comunione sulla lingua si giunga a ricordare che già all’inizio del II secolo “si proibì ai laici persino di toccare i vasi sacri; per cui è lecito supporre che si vietasse ai medesimi di toccare le sacre specie” (Zoffoli, § 751).

Ora, un’argomentazione del genere appare basata sull’ingenuo presupposto che il contatto con la lingua, a differenza di quello con le mani, non costituisca un “toccare”. 

Sicché, mentre le mani sono viste come qualcosa che compromette la purezza dell’ostia, si immagina che quest’ultima, una volta delicatamente posata sulla lingua del fedele, raggiunga direttamente il suo cuore integra e “intatta”, ossia “non toccata”. Potremmo dire che è come se il sacerdote collocasse l’ostia nel cuore stesso del comunicando, beatamente ignaro di tutte le trasformazioni degradanti che essa inizia a subire già al primo contatto con la saliva.

 

Come si vede, si tratta della stessa ingenuità che abbiamo rilevato nella bolla “Transiturus”. Una volta posta nella bocca, l’ostia viene considerata ormai “giunta a destinazione”, e quindi definitivamente al riparo da ogni contatto che possa comprometterne la purezza.

In realtà, come sappiamo, è Gesù stesso che ci ammonisce che le cose stanno in ben altro modo: è proprio dal momento dell’introduzione in bocca che iniziano i contatti più impuri, destinati a trasformare la candida particola in un grumo di nauseabonda poltiglia. 

 

La seconda considerazione che intendiamo fare tocca il problema del rapporto che la Chiesa intende mantenere con i fedeli nella gestione del sacramento eucaristico. La comunione sulla lingua, infatti, richiamando l’immagine dell’uccellino che nel nido riceve l’imbeccata dalla madre, diviene straordinario emblema di tale rapporto.

La situazione ricorda da vicino la proibizione di interpretare in modo autonomo la Scrittura: la parola di Dio deve giungere al fedele opportunamente preparata, cucinata (si vorrebbe dire “predigerita”) dalla Chiesa madre e maestra, così come il boccone che talora la mamma provvede a sminuzzare e ammorbidire coi denti per il suo bebè.

 

Come si è detto, è come se il sacerdote, ponendo l’ostia consacrata sulla lingua del fedele, la collocasse direttamente nel suo cuore. Il ruolo del comunicando viene ridotto al minimo: tutto si riduce all’atto di protendere la lingua, giusto come i nidiaci aprono i loro minuscoli becchi.

Ne risulta proporzionalmente enfatizzato il ruolo di chi impartisce la comunione, che si tratti del celebrante stesso o di qualcuno da lui autorizzato.

 

Altro dettaglio importante: la comunione sulla lingua comporta di regola l’inginocchiarsi di chi la riceve. Il gesto viene normalmente interpretato come manifestazione di riverenza verso il divino che si cela nell’ostia, ma finisce inevitabilmente per essere anche atto d’ossequio verso la figura di colui che ne è tramite, e quindi verso la Chiesa.

In sostanza, costituisce una riaffermazione della gerarchia, detentrice del potere sacramentale. L’aspetto di “comunione” dell’eucaristia ne risulta ulteriormente impoverito.

 

In un’intervista rilasciata nel 2008 a “Radici  cristiane”, mons. Albert Malcolm Ranjith Patabendige, segretario della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, esprimeva il proprio rammarico per il fatto che la prassi della comunione sulla mano, autorizzata dalla Chiesa obtorto collo in via sperimentale, sta guadagnando terreno in tutti i continenti; e ciò benché il Pontefice mostri chiaramente col proprio esempio quale sia la procedura più grata a Dio, distribuendo sempre l’ostia sulla lingua a fedeli inginocchiati davanti a lui.

 

Noi ci permettiamo di fare una considerazione, invitando anche in questo caso ad ascoltare le parole di Gesù stesso, troppo spesso dimenticate quando fa comodo.

Nel vangelo di Marco (14, 22) si legge: “E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: "Prendete, questo è il mio corpo"”.

E nel vangelo di Matteo (26, 26): “Ora, mentre mangiavano, Gesù prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e, mentre lo dava ai discepoli, disse: "Prendete, mangiate: questo è il mio corpo"”.

 

Gesù, dunque, dopo aver spezzato il pane, lo dà agli apostoli, sottolineando il gesto con un inequivocabile “prendete”. Gli apostoli quindi non possono aver fatto altro che prenderlo ciascuno nella propria mano.

Nessuno, pensiamo, oserà immaginare un Gesù che imbocca personalmente i dodici ponendogli i pezzi di pane sulla lingua. E nulla ci autorizza a pensare che essi abbiano ricevuto il corpo di Cristo stando inginocchiati.

La comunione sulla mano ha quindi un indiscutibile fondamento evangelico.

 

Il Redentore evidentemente non temeva la contaminazione del pane al contatto delle mani. E questo benché i discepoli non brillassero certo per scrupoli di purificazione igienico-rituale in vista del pasto, come avevano denunciato scribi e farisei nell’episodio di Mt 15, 11 ss. da noi ampiamente commentato.

Sappiamo del resto come reagì Gesù a tali rimproveri: si limitò ad escludere drasticamente ogni possibilità di contaminazione del cuore per via orale.

 

Vediamo così che anche il tema delle modalità di somministrazione dell’eucaristia ci porta a considerare quanto abbiamo detto circa una delle più gravi aporie presenti nella dogmatica del sacramento.