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martedì 17 gennaio 2017

APPARTENENZA E “PRATICA RELIGIOSA”


 
 

Ogni credente è definito dalla sua appartenenza e ne diviene consapevole appropriandosi soggettivamente della sua tradizione. Per questa ragione ogni comunità – non solo religiosa – ha riti d’iniziazione e d’avviamento, possiede un sistema pedagogico di trasmissione per cui la fede dei padri trapassa nei figli. Ma ogni eredità, come dice Hegel, è un ricevere e un far fruttare; ciò vuol dire che si perpetua solo se gli individui la assumono in proprio e la rinnovano.

 

C’è quindi una modalità di credere che è oggettivamente un appartenere, soggettivamente un aderire. È evidente che ove questa adesione non avviene il credo si dissolve. È tipico delle appartenenze – specie in età di secolarizzazione – che vengano meno non tanto per opposizione né per negazione, ma per semplice estenuazione: abbandono progressivo delle pratiche, disserzione dalla comunità e dai riti, conoscenza sempre più indeterminata e generica dei miti fondatori. Le credenze si perpetuano nel tempo fino a quando riti, miti, regola di condotta si mostrano adeguati ad affrontare le emergenze della vita, e soprattutto a dare senso al proprio stare al mondo e, ancora di più, all’esistenza del mondo stesso.

 

Cf. Salvatore Natoli, Il rischio di fidarsi (Voci), Il Mulino, Bologna 2016, pp. 145-148.