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domenica 18 febbraio 2018

LA CROCE È UN SIMBOLO DEL SACRIFICIO?






Il simbolo della croce, per una tradizione maggioritaria del cattolicesimo, è stato sempre interpretato come il simbolo più alto del sacrificio. Il cammino religioso dell’Imitatio Christi che ha ispirato gran parte della cultura cattolico-cristiana scaturisce da questa identificazione del credente con il corpo del Cristo sofferente sulla croce.

Si tratta di un episodio – il più alto – dell’obbedienza alla Legge di Dio che esige addirittura il sacrificio da parte di Dio stesso del proprio unico figlio? Questo simbolo – il simbolo di Cristo sulla croce – non è forse l’apoteosi della cultura colpevolizzante e sacrificale del mondo cristiano? Ma non sarebbe invece possibile leggere questo simbolo in una direzione opposta? Provare ad accostare il mistero tremendo della crocifissione da un’altra prospettiva? Non è possibile leggere la drammaticità di questa scena vedendovi il momento estremo del passaggio di Gesù al di là del fantasma sacrificale?

Nel Getsemani Gesù si mette a nudo nei confronti del proprio desiderio: sono disposto ad andare fino in fondo al mio compito? Di bere il calice amaro dell’assoluto abbandono? Sono capace di essere fedele sino alla fine alla Legge che mi abita? Un bivio si spalanca: nella fedeltà di Gesù al suo compito dobbiamo vedere il fantasma sacrificale a scena aperta o cogliere il momento più radicale del suo superamento?

Gesù crocifisso non è affatto il simbolo del carattere necessario del sacrificio, ma quello del suo definitivo abbandono, dell’attraversamento del fantasma sacrificale, del “sacrificio del sacrificio”. Se in questo fantasma il soggetto vive nell’obbedienza sacrificando la sua vita per ottenere il massimo risarcimento, nel gesto di Cristo in primo piano sono una donazione e una esposizione assolute che eccedono ogni forma di calcolo. Gesù, diversamente dell’uomo che, nella parabola dei talenti, nasconde il suo solo denaro sotto terra per paura di perderlo, non teme l’incontro – anche il più traumatico, quello della morte – con la perdita. Sulla croce egli porta a termine il suo destino, quello che egli ha scelto come suo compito fondamentale, la propria vocazione: liberare gli uomini dall’illusione idolatrica del sacrificio. Lo fa vincendo la paura che paralizza la vita e in questo modo libera la vita dalla paura. Slavoj Žižek coglie perfettamente questo punto quando scrive:

Il sacrificio di Cristo ci rende liberi non perché esso sia un pagamento per i nostri peccati, né perché sia un riscatto legalistico, ma perché mette in atto questa apertura. Quando abbiamo paura di qualcosa (la paura della morte è la paura ultima, che ci rende schiavi), un vero amico ci dirà qualcosa come: “Non aver paura, guarda, io farò proprio ciò che temi e lo farò gratuitamente – non perché devo, ma perché viene dal mio amore per te: io non ho paura” (La mostruosità di Cristo. Paradosso o dialettica?, Transeuropa, Massa 2010, pp. 95-96).

Quale è la differenza profonda tra “sacrificio” del Cristo crocifisso e di quello ascetico dell’uomo religioso descritto da Nietzsche? Questo secondo sacrificio è un modo per soddisfare la Legge attendendosi da essa i suoi – come abbiamo visto – molteplici benefici. È quello che possiamo trovare anche nella psicologia del terrorista: sacrificare la propria vita terrena (e quella di altri “infedeli”) per raggiungere – in quanto martire – il paradiso come luogo di un godimento senza limiti. Diversamente il sacrificio di Gesù non si compie in vista di altri fini, ma come risposta soggettiva a quella Legge che egli stesso enuncia nel suo celebre discorso della Montagna: la Legge dell’amore come nuova forma della Legge, come movimento che si apre radicalmente verso l’Altro, come donazione senza risparmio di se stessi. Nel dono di sé il desiderio non vive attendendosi qualcosa dall’Altro, non è subordinato al beneficio che tale dono potrà eventualmente procurare perché il valore di un dono è nell’atto stesso del donare e non in quello che esso ci consente di ottenere dall’Altro […]

Nell’esperienza cristiana della croce ogni economia del risarcimento salta: il creditore decide – in una mossa asimmetrica – di ricompensare i suoi debitori saldando per sempre il loro debito, lasciando liberi da ogni vincolo. Nessuna logica sacrificale si compie quanto piuttosto la sua sovversione: la croce non è il simbolo del sacrificio, ma è ciò che mette a morte il sacrificio, è ciò che rende per sempre vano il sacrificio, che libera il sacrificio dal peso cupo del sacrificio. Gesù non muore sulla croce perché ha la certezza di essere salvato dal Padre suo che è nei cieli, ma si salva perché decide di morire sulla croce, perché resta fedele al proprio desiderio. “Nessuno mi toglie (la vita): ma la do da me stesso” (Gv 10,18). In questo gesto egli libera l’uomo dalla paura della morte che è la paura che più di altre incentiva ogni pratica sacrificale.

Fonte: Massimo Recalcati, Contro il sacrificio. Al di là del fantasma sacrificale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017, pp. 139-144.