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domenica 15 aprile 2018

“NON METTERCI ALLA PROVA”








Nella preghiera del Padre Nostro c’è una petizione che costituisce un motivo di disagio pastorale. Ci riferiamo all’espressione: “E non c’indurre in tentazione”. Dio risulta così di essere l’artefice di un’operazione addirittura dannosa per l’orante. Per questo motivo esegeti e responsabili ecclesiali, fra cui anche papa Francesco di recente, hanno chiesto di modificare la formulazione usata da secoli nella preghiera liturgica. Pietro Bovati (“Non metterci alla prova”. A proposito di una difficile richiesta del Padre Nostro, in “La Civiltà Cattolica” 4023, 3/17 febbraio 2018, pp. 215-227) prova a fornire un apporto innovativo: da un lato, attenendosi strettamente alla lettera del testo evangelico (in greco); e, dall’altro, approfondendo il senso di questa difficile petizione. La chiave, più che nel verbo (“indurre”), sembra essere nel senso proprio della parola che in italiano abbiamo tradotto con “tentazione”. Dell’articolo, offro parte della fine (pp.225-227):

[…]
Le diverse petizioni della seconda parte del Padre Nostro espongono al Padre diverse condizioni di bisogno e miseria della comunità in preghiera, non però supponendo che Dio non sia al corrente o non voglia soccorrere, bensì con l’intento di rinnovare la memoria degli aspetti e delle circostanze in cui il Padre esprime la sua benevola azione compassionevole. Ora, uno dei luoghi difficili dell‘umana esistenza è l’esperienza del dolore, provocato dall’assenza di qualche bene importante o addirittura indispensabile. È giusto ed è doveroso che l’orante non soltanto presenti al suo Dio le sofferenze, ma esprima anche quanto esse lo privino dello slancio di fede e di speranza. Se chiedere nella preghiera di essere esposti alla bufera del male sarebbe ovviamente un atto di orgogliosa presunzione, anche pensare di essere capaci da soli di superare le difficoltà non è atto di minore superbia. Al contrario, invocare dal Padre, a ragione di un’umile consapevolezza della propria fragilità, di essere risparmiati dal fuoco della prova è un atto che Dio approva ed esaudisce. Chi sta pregando con il Padre Nostro domanda al Padre di non essere immerso nella fornace del dolore, perché riconosce che essa diverrebbe per lui una “tentazione”, una pericolosa occasione di sfiducia nella Provvidenza, oltre che una mancata opportunità di lode per il Creatore della vita.

Chi avverte come Gesù nell’orto del Getsemani, l’approssimarsi della terrificante minaccia della morte, chi prova dunque nel cuore angoscia grande (Mt 26,38), è chiamato a entrare in preghiera, e a ripetere con il Cristo: “Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice!” (Mt 26,39), perché solo chiedendo di non fare esperienza della morte l’orante riconosce che la vita è un bene da desiderare, e perché solo chiedendo di vivere, il credente accoglierà la volontà di Dio, quale sicuro esaudimento della sua richiesta (Eb 5,7).

Il momento drammatico della prova si presenta alla coscienza in alcune particolari circostanze: quando la minaccia si avvicina, quando assume contorni spaventosi. Può trattarsi di una catastrofe naturale, di un dissesto economico, di una malattia grave, o di una inimicizia foriera di molteplici e indicibili sofferenze. Se ben consideriamo le nostre preghiere spontanee, se ci domandiamo insomma che cosa chiediamo a Dio quando apriamo a lui il nostro cuore, dobbiamo constatare che ogni volta gli domandiamo di non entrare nella prova. Anzi, come ci invita a dire Gesù nell’ultima petizione (secondo il testo di Matteo), la preghiera al Padre chiede di essere “liberati dal male”, intendendo con ciò di essere fatti uscire da qualsiasi realtà perniciosa che si oppone alla vita, e quindi a Dio stesso.

Non si tratta dunque di pregare il Padre esclusivamente di essere in grado di superare le tentazioni e vincere le seduzioni del Maligno – cosa questa senz’altro necessaria –, ma anche di supplicare il Dio buono che conceda il suo aiuto a chi è piccolo e fragile, a chi sa che “lo spirito è pronto, ma la carne è debole” (Mt 26,41), così da attraversare la notte senza perdersi. Pensiamo a tutti coloro che si rivolgevano a Gesù chiedendo la guarigione; pensiamo anche alle molteplici richieste che ripetiamo quotidianamente, riprendendo le formula dei Salmi o delle orazioni liturgiche; pensiamo infine a quante invocazioni nascono nel nostro cuore quando percepiamo un pericolo, o siamo colpiti dall’ansia per il futuro, o siamo già toccati da qualche sintomo di male. Ebbene, questa variegata forma di richieste al Signore è tutta riassunta e come condensata in un’unica petizione, quella che dice: “Non metterci alla prova”.

Essa è generica ed espressa in forma negativa, perché, pur chiedendo soccorso, non detta le modalità precise dell’aiuto impetrato; chi prega con il Padre Nostro, confessando la sua debolezza e le sue paure, e indirettamente riconoscendo anche la scarsa qualità del suo credere, si affida al misericordioso volere del Padre, che saprà condurre i suoi figli là dove scaturirà il meglio per loro. L’orante si affida dunque a un disegno che solo Dio conosce, lodando così la sapiente bontà del Padre; si affida invocando, per esprimere il suo amore per la vita; si affida fiducioso, sapendo già di essere esaudito persino al di là di ciò che il suo cuore desidera.
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