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sabato 29 giugno 2024

DOMENICA XIII DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 30 Giugno 2024

 


 

 

Sap 1,13-15; 2,23-24; Sal 29; 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43

 

Nei racconti mitologici dell’antica Mesopotamia troviamo un personaggio, l’eroe nazionale Gilgamesh, il quale, sconvolto dall’esperienza della morte di un suo amico, va in cerca instancabile dell’immortalità. A questo scopo affronta pericoli, ostacoli, difficoltà di ogni genere. Ma tutto si rivela inutile. E alla fine Gilgamesh si sente dire da coloro che conoscono la sapienza: “Quando gli dèi hanno creato l’uomo, hanno tenuto per sé l’immortalità, e a lui hanno dato come eredità la morte”. Diverso è il messaggio della nostra fede. Il libro della Sapienza, da cui è presa la prima lettura, afferma: “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli, infatti, ha creato tutte le cose perché esistano”. In questo contesto, possiamo cogliere l’insegnamento del brano evangelico odierno, che riporta due dei miracoli compiuti da Gesù: la guarigione dell’emorroissa e la risurrezione della figlia dodicenne di Giàiro, uno dei capi della sinagoga. Con questi segni Gesù ci si manifesta come Signore della vita, come colui che vuole la vita e non la morte. Ai nostri occhi, secondo la nostra esperienza, la vita si presenta come provvisoria e la morte come definitiva. Ma davanti a Gesù i rapporti si capovolgono: la morte diventa provvisoria e alla vita viene promesso un futuro. Davanti a Gesù la morte diventa sonno; perde quindi il suo carattere di annientamento per assumere quello di trasformazione. Con Cristo la morte ha cessato di essere una condanna senza appello, un evento senza speranza: la vita continua anche dopo, come dono di Dio. Nelle icone orientali della risurrezione, il Signore viene rappresentato con ai piedi le porte degli inferi spezzate mentre solleva con le mani Adamo ed Eva: solo lui può calpestare la morte con la morte.

 

Quando la Bibbia parla di vita e di morte dell’uomo, non si riferisce solo a fenomeni di natura biologica. Essa illustra un concetto anche spirituale e religioso di vita e di morte che ha una fase terrena e un’altra al di là. Il Nuovo Testamento ci insegna ad accogliere come via della vita anche quella che passa attraverso la morte e la morte di croce. Vi è sempre un di più in Dio che può creare vita perfino nella morte. Per accedere alla vita piena e definitiva il Signore chiede la fede: “Non temere, soltanto abbi fede!”, dice Gesù a Giàiro all’annuncio della morte della figlia. E all’emorroissa: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”. Le guarigioni e le risurrezioni operate da Gesù significano quindi che la salvezza è giunta al mondo. L’uomo muore nel momento in cui cessa di credere e di sperare.

 

Della fede parla anche san Paolo nella seconda lettura: i cristiani di Corinto che sono ricchi “in ogni cosa, nella fede, nella parola…”, sono invitati ad essere generosi e a condividere i loro beni con i cristiani bisognosi della Chiesa di Gerusalemme.

giovedì 27 giugno 2024

SANTI PIETRO E PAOLO APOSTOLI – 29 Giugno 2024

 



Messa del giorno

 

At 12,1-11; Sal 33; 2Tm 4,6-8.17-18; Mt 16,13-19

 

La Chiesa celebra e onora assieme nello stesso giorno i due santi apostoli Pietro e Paolo, che “Dio ha voluto unire in gioiosa fraternità” (prefazio della messa). Si tratta di due personaggi molto diversi, ma ambedue spinti dallo stesso amore per Cristo e la sua Chiesa. Secondo sant’Agostino, il loro martirio è segno di unità della Chiesa: “Un solo giorno è consacrato alla festa dei due apostoli. Ma anch’essi erano una cosa sola. Benché siano stati martirizzati in giorni diversi, erano una cosa sola. Pietro precedette, Paolo seguì. Celebriamo perciò questo giorno di festa, consacrato per noi dal sangue degli apostoli” (Discorso letto nell’Ufficio delle letture). Celebriamo il mistero della Chiesa, fondata sul sangue e sull’insegnamento degli apostoli (cf. l’orazione colletta).

 

Il brano degli Atti degli Apostoli riportato dalla prima lettura racconta che re Erode fece mettere in prigione Pietro per poi ucciderlo appena passata la Pasqua. Ma Dio lo liberò prodigiosamente in virtù della preghiera incessante della comunità di Gerusalemme. Nella seconda lettura Paolo, ormai al tramonto, fa il bilancio della sua vita e anche lui, nonostante le difficoltà trovate e le prove subite nell’adempimento della sua missione apostolica, dichiara che il Signore gli è stato vicino e, guardando al futuro, conclude: “il Signore mi libererà da ogni male…” Perciò nel salmo responsoriale proclamiamo: “Il Signore mi ha liberato da ogni paura”. La lettura evangelica riporta la confessione di fede che Pietro fa a nome di tutti gli apostoli: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, e la risposta di Gesù: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa…” Il prefazio fa riferimento a questo passaggio quando dice che “Pietro per primo confessò la fede nel Cristo”, ma subito dopo aggiunge: “Paolo illuminò le profondità del mistero”. La fede di Pietro è illuminata dal mirabile magistero di Paolo. Pietro e Paolo sono le colonne della Tradizione cristiana. Pietro, la roccia sulla quale Cristo ha fondato la sua Chiesa; Paolo, “il maestro e dottore, che annunziò la salvezza a tutte le genti” (prefazio).

 

Il prefazio e le orazioni della messa delineano il significato ecclesiologico dei due apostoli. Il prefazio afferma che i santi Pietro e Paolo “in modi diversi hanno radunato l’unica famiglia di Cristo”. E l’orazione dopo la comunione contempla questa unica Chiesa alla luce delle note che hanno caratterizzato l’ideale della primitiva Chiesa gerosolimitana: perseveranza nella frazione del pane, nella dottrina degli apostoli, per formare nel vincolo della carità un cuor solo e un’anima sola. Il testo fa riferimento a At 2,42 (e paralleli), che descrive la vita della comunità primitiva come comunione fraterna o koinonia, termine greco che definisce la comunione di fede con Dio o con Cristo e l’unione profonda tra i credenti che si esprime e si attua nella fede comune, nell’esperienza eucaristica e nella partecipazione spontanea dei beni. Questa comunione dei beni esprime tuttavia una realtà più profonda: la comunione dei cuori e delle anime.

 

La festa degli apostoli Pietro e Paolo ci ricorda che la Chiesa è un mistero di comunione. Possiamo quindi affermare che la missione primaria della Chiesa è quella di essere segno di comunione nel mondo. Il cristiano deve avere un cuore grande, sgombro di pregiudizi, un cuore pulito e trasparente, pronto all’incontro e al servizio. “La Chiesa è famiglia dei figli di Dio, nella quale siamo tutti fratelli […] essa si accresce nel mistico scambio di tutto ciò che ciascuno è e compie nella Chiesa” (CEI, Comunione e Comunità, n. 19).

 

domenica 23 giugno 2024

I NOMI DEL SACRAMENTO DELLA PENITENZA

 


 

 

La crisi del sacramento della penitenza, si riflette anche nella mancanza di accordo in teologia sul nome con cui designare il quarto sacramento, a tal punto che alcuni autori lo chiamano semplicemente in questo modo: il quarto sacramento. I nomi che ha ricevuto il nostro sacramento sono diversi e sono da considerarsi tutti complementari tra loro. Nella mentalità attuale, la parola penitenza esprime, di fatto, solo lo sforzo penoso dell’uomo che è invitato a cambiare strada, orientamento... Questo senso restrittivo attribuito alla penitenza la colloca in un contesto poco gioioso! In ogni modo, è il termine preferito dal Concilio di Trento, dai documenti del Vaticano II e dallo stesso Rito della penitenza del 1973 (= RP). La parola conversione (traduzione della metanoia neotestamentaria), in sé stessa, esprime bene la realtà fondamentale della svolta radicale che si deve operare nel peccatore che si avvicina al sacramento, ma forse non esplicita abbastanza che questa svolta si attua nel tempo. Alcuni parlano del sacramento del perdono; così, ad esempio, anche il Catechismo della Chiesa Cattolica usa quest’espressione (CCC, n. 1446). Si noti però che il perdono si trova allo sbocco di un cammino di conversione. La parola confessione, che è stata la denominazione più diffusa negli ultimi secoli ed è ancora largamente adoperata (confessarsi, confessionale, confessore), mette in primo piano solo una parte dell’azione del penitente e può favorire una visione del sacramento come semplice scarico psicologico. Oggi alcuni autori preferiscono l’espressione sacramento della riconciliazione. È una parola che non compare nei vangeli, la troviamo invece in san Paolo, il quale afferma, tra l’altro, che è stato Dio “a riconciliare a sé il mondo in Cristo” (2Cor 5,19). Quindi con questo termine si sottolinea in modo particolare l’azione di Dio in noi. Inoltre, il vocabolo viene considerato adatto ad esprimere l’effetto a cui tende il sacramento: una ripresa di rapporti (ri - conciliazione), la pace ritrovata con Dio, con gli altri, con sé stesso. Ne fa uso abbondante sia il RP che il CCC.

venerdì 21 giugno 2024

NATIVITA’ DI SAN GIOVANNI BATTISTA – 23 Giugno 2024

 



Messa vespertina della vigilia

 

Ger 1,4-10; Sal 70; 1Pt 1,8-12; Lc 1,5-17

 

Le tre letture bibliche fanno riferimento a questo ruolo profetico del Battista. Il brano della prima lettura riporta la vocazione di Geremia, chiamato ad essere profeta quando era ancora di giovane età in un momento in cui il popolo di Dio attraversava uno dei più difficili sconvolgimenti della sua storia. Leggendo la vocazione di Geremia si comprende meglio la vocazione di Giovanni, anch’egli chiamato dal Signore “fin dal seno di sua madre” (vangelo) in un momento cruciale della storia di Israele. Geremia è chiamato “per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare”. Giovanni Battista, come Geremia, è inviato e consacrato da Dio per annunciare contemporaneamente il giudizio e la redenzione del popolo.

 

L’ufficio profetico non è legato alla famiglia o ad un ordine legale, come quello dei sacerdoti e dei leviti, ma è liberamente direttamente trasmesso da Dio stesso, come missione. “Attraverso i profeti, Dio forma il suo popolo nella speranza della salvezza, nell’attesa di una alleanza nuova ed eterna destinata a tutti gli uomini e che sarà inscritta nei cuori” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 64). Queste parole trovano una sua eminente espressione nella missione di Giovanni Battista: Egli “camminerà innanzi [al Signore] con lo spirito e la potenza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo ben disposto” (vangelo). Come i profeti antichi, Giovanni traduce la legge in termini di esistenza vissuta, annunzia l’imminenza dell’ira e della salvezza e, soprattutto, discerne il Messia presente senza essere conosciuto e lo indica. Giovanni chiude l’economia dell’antica alleanza, succedendo all’ultimo dei profeti, Malachia (V secolo a. C.), di cui compie l’ultima predizione: “Io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore” (Ml 3,23).

 

I profeti sono amici di Dio che, animati nel profondo dallo Spirito, indicano al popolo il senso degli eventi, ammoniscono, scuotono. Più che predire il futuro, i profeti hanno il dono di capire e interpretare il presente. Non hanno paura di dire anche delle verità scomode, che contrastano con l’indirizzo delle istituzioni politiche e religiose e che possono mettere in pericolo di vita di chi le annunzia. Anche Gesù viene considerato un profeta dai suoi contemporanei (cf. Gv 6,14) ed egli stesso lo afferma di sé (cf. Lc 13,33). Anzi, Gesù non è solo un profeta, ma il profeta, l’inviato dal Padre per annunciare agli uomini la buona novella della salvezza (cf. Lc 4,24). I profeti esistono ancora, sono presenti in mezzo a noi. Il Vaticano II afferma che tutti i cristiani sono chiamati a partecipare al ruolo e alla missione profetica di Cristo. La profezia è quindi un dono e una dimensione comune dell’esistenza cristiana. Questo dono si manifesta in modo particolarmente fecondo in alcuni santi e in semplici e umili credenti che vivono il loro battesimo in profondità. La profezia non mancherà mai nella comunità ecclesiale come forma permanente di memoria che obbliga a non assumere mai nella vita alcun assoluto, ma piuttosto a relativizzare ogni cosa davanti all’unico necessario. 

 

 

 Messa del giorno

 

 Is 49,1-6; Sal 138; At 13,22-26; Lc 1,57-66.80

 

La solennità della Natività di san Giovanni Battista è situata sei mesi prima del Natale (in omaggio al testo di Lc 1,36) e tre mesi dopo l’Annunciazione. Già nel secolo III, fondandosi sul simbolismo del Cristo-sole, nella riflessione sulla storia della salvezza fu dedicata particolare attenzione ai solstizi; così si arrivò all’opinione che il Battista fosse concepito all’equinozio di autunno e nato al solstizio di estate, poiché nel solstizio di estate la lunghezza dei giorni incomincia a diminuire, mentre riprende ad aumentare dopo quello di inverno, in cui celebriamo la nascita di Gesù. La tradizione dei Padri vede in questo una conferma alle parole del Battista: “Egli deve crescere e io invece diminuire” (Gv 3,30). Al momento dovuto, Giovanni Battista scomparirà dalla scena per far posto a Cristo.

 

Le letture bibliche e le preghiere della liturgia odierna sottolineano il ruolo di Giovanni come “Precursore”, come colui che “prepara”, “annuncia”, “indica”, “rende testimonianza alla luce” che è Cristo Signore. Egli, come dice sant’Agostino, “sembra sia posto come un confine fra due Testamenti, l’Antico e il Nuovo” (Discorso proposto dall’Ufficio delle letture). Giovanni Battista è l’ultimo profeta di Israele e il primo del nuovo Israele.

 

La prima lettura riporta un brano del secondo canto del “Servo del Signore”, misteriosa figura messianica che viene presentata come un profeta, oggetto di una predestinazione divina; la sua missione è estesa non solo a Israele, ma anche alle nazioni per illuminarle con la luce della salvezza. Il brano di Isaia è riferito anzitutto a Cristo. Ma anche di Giovanni si può dire: “il Signore dal seno materno mi ha chiamato”. Anche il Precursore è stato chiamato ad essere “testimone della luce”: “Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce” (Gv 1,8). Sulla stessa linea, nel brano evangelico, san Luca, nel narrare la nascita di Giovanni, stabilisce un certo parallelismo con quella di Cristo, ma al tempo stesso fa emergere la totale finalizzazione del Precursore al Salvatore. La frase finale: “E davvero la mano del Signore era con lui” (v. 66) e l’aggiunta del v. 80 sulla crescita mirabile del bambino evocano le stesse circostanze e realtà che si ripeteranno in modo pieno in Cristo Gesù. Giovanni ci si presenta come vera icona di Cristo.

 

La seconda lettura riporta un brano del discorso tenuto da Paolo ad Antiochia. L’Apostolo sottolinea il ruolo di Precursore del Messia che Giovanni ha saputo interpretare con fedeltà: “Io non sono quello che voi pensate! Ma ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di slacciare i sandali”. Giovanni ha avuto l’umiltà e la saggezza di sentirsi solo strumento in ordine a Cristo. Non ha preteso di attirare su di sé gli sguardi degli uomini, ma si è preoccupato unicamente di orientarli verso il Cristo. Ognuno di noi nella storia ha un suo ruolo da compiere, una sua missione da espletare. Ruolo e missione che non devono essere fraintesi o indebitamente esaltati.

 

Come ci ricorda il prefazio della messa, Giovanni non solo è stato eletto e consacrato “a preparare la via a Cristo Signore”, ma anche ha indicato al mondo “l’Agnello del nostro riscatto”. L’orazione dopo la comunione riprende lo stesso tema quando afferma che la Chiesa, “nutrita alla cena dell’Agnello”, è invitata a riconoscere “l’autore della sua rinascita, Cristo, che la parola del Precursore annunziò presente in mezzo agli uomini”.

                   

DOMENICA XII DEL TEMPO ORDINARIO (B) – 23 Giugno 2024

 



 

 

Gb 38,1.8-11; Sal 106; 2Cor 5,14-17; Mc 4,35-41

 

 

Il tema del mare unifica il contenuto della prima lettura e quello della lettura evangelica. Con le sue tempeste improvvise e la sua forza invincibile, il mare ha sempre colpito l’immaginazione degli antichi, che lo consideravano un simbolo delle potenze demoniache, perché incontrollabile. Nella Bibbia il mare e l’oscurità sono simbolo del caos iniziale, dominato e vinto dalla potenza creatrice di Dio (cf. Gen 1). Il mare è la sede di tutte le forze ostili a Dio, destinato a scomparire per sempre quando la creazione sarà totalmente rinnovata (cf. Ap 21,1). La vittoria sulle malefiche potenze del mare non è in potere dell’uomo; è solo di Dio, l’unico che riduce la tempesta al silenzio (cf. salmo responsoriale). Su questo scenario, il gesto di Gesù che calma la tempesta sul lago e salva i discepoli dal naufragio acquista tutto il suo significato. Notiamo che si tratta di un miracolo che Gesù non compie per la folla, che è assente; protagonisti del racconto sono Gesù e i discepoli. Si tratta quindi di un evento del quale i discepoli sono chiamati a cogliere il segreto. Quale segreto?

 

Possiamo affermare che il racconto di san Marco ha una doppia finalità: farci conoscere meglio la persona di Gesù e illustrare poi quale dev’essere il nostro rapporto con lui. Infatti, il passo evangelico descrive uno degli eventi più dimostrativi della vera identità di Cristo. È l’unico testo in cui si parla del sonno di Gesù, il quale essendo soggetto a questo bisogno umano appare come vero uomo. Al tempo stesso però Gesù agisce da assoluto e incontrastato padrone delle forze della natura e, in questo modo, si manifesta ai discepoli come vero Dio.

 

Quale dev’essere il nostro rapporto con Gesù, il Cristo, uomo e Dio? San Marco nei versetti anteriori dello stesso capitolo ha raccontato la parabola del seme gettato in terra. Ecco, quindi, che dopo la lezione del seme che germoglia e cresce, indipendentemente dal seminatore, che egli “dorma o vegli, di notte o di giorno”, Gesù si poteva attendere dai suoi discepoli un atteggiamento fiducioso, un atto di fede in colui che aveva preso l’iniziativa della traversata, anche se ora era sprofondato nel sonno. Gesù deve costatare invece che i suoi discepoli non hanno ancora una fede compiuta. D’altra parte, il sonno di Gesù, lo sgomento dei discepoli e la loro mancanza di fede fanno pensare agli avvenimenti raccontati alla fine del Vangelo secondo Marco (Mc 16,10-14). Coloro che erano stati con Gesù hanno rischiato di sprofondare, travolti dal dubbio, al momento della sepoltura del loro Maestro. Non hanno creduto coloro che annunciavano il suo risveglio da morte. Manifestandoci agli Undici, gli ha rimproverati, come in questo caso, per la loro incredulità e la loro inquietudine. La fede ci insegna a non esaltarci nel successo e a non abbatterci nelle tempeste, ma a riconoscere sempre in ogni evento che il Signore è presente e ci accompagna nel cammino della storia. Il Signore non priva mai della sua guida coloro che ha stabilito sulla roccia del suo amore.

 

 

 


domenica 16 giugno 2024

L’ARCHITETTURA GOTICA

 



 

Cosa c’entrano i Goti con l’architettura gotica? Semplicemente nulla. Il termine “gotico” nasce in senso dispregiativo per indicare un’architettura decadente e senza gusto, creata dopo la caduta dell’Impero romano a opera dei barbari. Questa idea, priva di qualsiasi fondamente storico, si affermò nell’Italia del Rinascimento. Gli umanisti del Quattrocento imputavano ai barbari la grande colpa della distruzione della civiltà romana e la causa della successiva decadenza che aveva colpito la cultura e le arti. Il primo sacco di Roma era stato provocato nel 410 da Alarico, re dei Visigoti, e quindi i Goti erano i responsabili della devastazione dell’Impero. I Goti erano un popolo di stirpe germanica e l’Europa romana venne occupata nel corso del V secolo da un’ondata di tribù germaniche, segnando l’epoca delle invasioni. Con maggiore equilibrio la storiografia moderna interpreta questo grande fenomeno come Völkerwanderungen, una grande migrazione di popoli che ha determinato l’inizio della civiltà medievale europea.

In realtà le popolazioni germaniche non avevano nulla a che fare con l’architettura gotica, ma per gli uomini del Rinascimento si era ormai affermata una chiara equivalenza. Goti = barbari più feroci = architettura barbarica. L’aggettivo “gotico” assume così nell’italiano del tardo medioevo il significato di “volgare, rustico”, e in questo senso lo usa Leon Battista Alberti in riferimento alla pittura. In modo simile il grande umanista Lorenzo Valla definisce gotiche le scritture dei codici altomedievali che hanno perduto l’elegante modello delle lettere antiche.

 

Fonte: Carlo Tosco, Le vie delle cattedrali gotiche, il Mulino, Bologna 2024, pp. 22-23.

 

 

venerdì 14 giugno 2024

DOMENICA XI DEL TEMPO ORDINARIO ( B ) – 16 Giugno 2024

 



 

 

Ez 17,22-24; Sal 91; 2Cor 5,6-10; Mc 4,26-34

 

La parola di Dio di questa domenica parla di piccolezza, povertà, umiltà e ci invita ad un rapporto di totale e fiduciosa dipendenza da Dio nell’essere e nell’operare. Dio si rivela come colui che dà un futuro all’uomo, in particolare a chi, perché debole e piccolo, è senza speranza. Così vediamo che nella prima lettura il profeta Ezechiele descrive l’azione di Dio adoperando l’allegoria del ramoscello del cedro che egli pianta sui monti di Israele. La piccola pianta - dice il profeta in nome di Dio - “metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico”. La robustezza, la fecondità e la longevità dei cedri e delle palme, le piante più rigogliose della Palestina, sono un simbolo espressivo della potenza e ricchezza della vita interiore e soprannaturale degli uomini e donne giusti.

 

Le parole del profeta sono lo sfondo adeguato alla comprensione delle due parabole del vangelo d’oggi che fanno leva sull’immagine del seme che cresce. Gesù parla del regno di Dio, che è come la semente che cresce da se o come “un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto…” Il regno di Dio cresce in noi con il seme della Parola di Dio (cf. salmo responsoriale). La fede del credente nella parola di Dio ha una sua manifestazione nella fiducia che san Paolo conserva anche davanti alla prospettiva della sua morte (cf. seconda lettura). Alla luce della fede, nemmeno la morte è vista come un fallimento, anzi essa può venir trasformata nel compimento pieno dell’obbedienza a Dio.

 

Da queste riflessioni possiamo ricavare alcune lezioni pratiche. Dio dona un futuro specie al povero e al debole, a chi conta su di lui, al chicco di frumento e di senape; stronca invece il superbo, il prepotente, l’autosufficiente, chi attende tutto e solo da se stesso. Tutto ciò quindi che è fondato unicamente su fattori imposti dall’esterno, su valori non assimilati interiormente, prima o poi è destinato al fallimento. Bisogna rispettare la legge della crescita con i suoi passaggi e le sue fatiche.

 

domenica 9 giugno 2024

LE CATTEDRALI GOTICHE

 



 

Carlo Tosco, Le vie delle cattedrali gotiche, il Mulino, Bologna 2024. 276 pp. (€ 16,00).

Comprendere la storia culturale del gotico significa comprendere un fenomeno che ha segnato in profondità l’identità europea. Le cattedrali ne sono l’incarnazione più parlante (Quarta di copertina).

1. Il gotico: uno stile per l’Europa.

2. La fase formativa: da Saint-Denis a Notre-Dame.

3. Il gotico come sistema: Chartres e la sua famiglia monumentale.

4. In Inghilterra da Canterbury a Lincoln.

5. Alla corte di san Luigi.

6. Sulle sponde del Reno: Colonia e Strasburgo.

7. I regni della penisola iberica.

8. Le cattedrali del Trecento in Inghilterra e in Francia.

9. Praga imperiale.

10. Il duomo di Milano.

 

venerdì 7 giugno 2024

DOMENICA X DEL TEMPO ORDINARIO (B) – 9 Giugno 2024

 



Gen 3,9-15; Sal 129; 2 Cor 4,13-5,1; Mc 3,20-35

 

 

Al centro delle tre letture bibliche che abbiamo ascoltato troviamo il tema della lotta contro il male morale, ciò che noi chiamiamo “peccato”, una parola che proviene dal verbo latino “peccare”, che in origine significava “inciampare”. È un’esperienza quotidiana che noi non di rado siamo inclini ad inciampare, a peccare. La nostra vita è caratterizzata spesso da cedimenti e sbagli più o meno gravi, più o meno importanti.

 

Questa amara esperienza del peccato la troviamo già nell’origine dell’umanità. La prima lettura, tratta dal libro della Genesi, intende dare una risposta alla domanda: da dove viene il male morale? La Bibbia risponde a questa domanda con il linguaggio simbolico degli antichi racconti eziologici, cioè quei racconti che intendono spiegare la causa di un fenomeno. Si afferma che la fonte del male morale è l’uomo stesso che “liberamente”, si lascia condizionare dalla tentazione ed opera scelte contrastanti con Colui che dovrebbe essere il valore fondamentale della sua vita. Il racconto biblico di Adamo ed Eva che mangiano il frutto dell’albero proibito, illustra le quattro rotture provocate dal peccato: con Dio, di cui si fugge per paura; con gli uomini, con i quali si rompe la solidarietà; con se stessi, con relativa interiore insicurezza e debolezza; con la natura, che invece di condurre a Dio ne diventa un ostacolo. Il racconto della Genesi si chiude con la maledizione del serpente, il tentatore, e con misteriose parole di speranza per l’umanità: “Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”. Profezia di una lotta dura e aspra, ma con un finale vittorioso. In altre parole, l’essere umano, cioè il figlio della donna, avrà la meglio sul serpente tentatore.

 

Questa profezia della Genesi si avvera in Cristo, presentato da san Marco nel brano evangelico d’oggi come “l’uomo forte” che è in grado di difendersi da ogni assalto del male, da “satana”. Giovanni Battista aveva già parlato di Gesù come “uno più forte” che veniva dopo di lui e che battezzava con lo Spirito Santo (cf. Mc 1,7-8). Gesù vince il male perché cede solo alle richieste di Dio e alle urgenze dell’uomo, non ai vari “idoli” del suo tempo. Con lui e in lui è veramente giunto il regno di Dio ed è iniziato il crollo del regno di Satana. Gesù è venuto per trasferirci dal regno delle tenebre, in cui domina Satana e la sua logica di menzogna, al regno del Figlio diletto, quello dove Gesù regna e il vangelo diventa norma dei nostri comportamenti. In questo modo, viene anticipata quella vittoria finale del bene e dell’uomo rappresentata dalla risurrezione, di cui parla san Paolo nella seconda lettura: “colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui”. Siamo deboli, “tutti siamo peccatori” come dice spesso papa Francesco, ma come abbiamo ripetuto dopo la prima lettura: “Il Signore è bontà e misericordia”.

 

 

domenica 2 giugno 2024

MARIA DONNA DEL “CUORE SAPIENTE”

 



 

Maria donna del “cuore sapiente” è l’icona della dimensione contemplativa del culto cristiano. La contemplazione è l’esperienza gioiosa della presenza di Dio e la consapevolezza della sua vicinanza, che si può descrivere con le parole dell’ultimo versetto del Sal 73 [72]: “Il mio bene è stare vicino a Dio...” (v.28). Così si spiega anche san Pietro nella sommità del monte quando contempla il Cristo trasfigurato: “Signore, è bello per noi restare qui...” (Mt 17,4). Questa esperienza è il frutto della conoscenza, della visione e, soprattutto, dell’ascolto. Così si esprime la tradizione monastica, che è quella che meglio ha conservato la terminologia biblica della contemplazione. È noto, infatti, che la Bibbia non usa mai i termini contemplazione, contemplare, ma preferisce i verbi conoscere, vedere e, in modo particolare, ascoltare. Il testo più bello della Regola di san Benedetto al riguardo è forse quella affermazione che troviamo nel Prologo, quando si dice: “Con gli occhi aperti e gli orecchi tesi ascoltiamo ciò che la voce divina ogni giorno ci raccomanda”. La contemplazione cristiana attinge quindi dall’ascolto della Parola il suo nutrimento. Il Vaticano II parla della contemplazione come di “adesione a Dio con la mente e con il cuore” (Perfectae Caritatis, n.5). La contemplazione non è una mistica estatica, evanescente, ma la capacità concreta di cogliere nella realtà dell’amore, del bene, della natura la risposta a Dio che ci ama. In questo contesto, ciò che si avvicina di più all’attività contemplativa è l’atteggiamento dei saggi dell’Antico Testamento, di cui Maria è l’espressione creaturale più perfetta.




L’icona che presiede l’abside di Santa Sofia di Kiev, chiamato del “Muro indistruttibile”, rappresenta la Sapienza, identificata al tempo stesso con Maria e con la Chiesa, nell’atteggiamento dell’orante per eccellenza. Questo mosaico del secolo XI può essere considerato come uno sviluppo dell’orante delle Catacombe, al tempo stesso Vergine e Chiesa; una Chiesa che, sull’esempio di Maria donna del cuore sapiente, è attenta all’ascolto della Parola e adora il Padre “in spirito e verità”. Maria è al centro della Chiesa per la sua fede, obbedienza e assimilazione quotidiana (nel “cuore”) della divina Parola. Da questa prospettiva, Maria appare modello della Chiesa che, proprio nella liturgia, celebra il compiersi in lei della Parola di Dio, e loda il suo Signore per tutto quello che ha udito, visto e che sperimenta ogni giorno nella sua vita.  In Maria del cuore sapiente, come nella liturgia della Chiesa, l’artefice supremo è lo Spirito Santo.


M. Augé