Translate

martedì 17 ottobre 2017

Bisogna interpretare il diritto canonico alla luce del Concilio Vaticano II.

UNIVERSITA’ DI PISA
PIERLUIGI CONSORTI


Il Cardinale Robert Sarah ha diffuso una sua personale interpretazione del Motu proprio Magnum Principium che ha recentemente modificato il canone 838 del codice di diritto canonico.  La riforma si è resa necessaria per chiarire quali debbano essere i termini della relazione fra la competenza legislativa propria assegnata in materia liturgica alle Conferenze episcopali e la competenza esecutiva della Sede apostolica alla luce dei principi conciliari. Il canone si esprimeva per la verità in modo già sufficientemente chiaro, ma la prassi amministrativa aveva generato molte difficoltà applicative, che la riforma ha voluto definitivamente dissipare.
Vale la pena ricordare che nella Chiesa la forza normativa dipende dall’autorità del soggetto che emana una legge e che la potestà legislativa è connessa al munus episcopale. Ciascun vescovo diocesano gode della pienezza della potestà normativa verso il popolo che gli è stato affidato. Tuttavia il Concilio ha spiegato che non si tratta di un potere personale quanto di un effetto della comunione che caratterizza il munus di ciascun vescovo in quanto membro del collegio episcopale. In questo modo ogni Chiesa particolare è parte dell’unica Chiesa universale sicché la potestà normativa propria di ciascun vescovo diocesano si raccorda con quella di tutti gli altri vescovi in comunione con quello di Roma. Tale vincolo si realizza anche attraverso diverse forme di collegamento tra vescovi diocesani. Il Concilio in questo senso ha valorizzato le Conferenze episcopali nazionali rispetto ad altri soggetti aggregativi risalenti nel tempo, come le regioni ecclesiastiche e i concili locali.
Le funzioni attribuite alle Conferenze episcopali prevedono una competenza legislativa speciale limitata a casi ben determinati.  Il can. 838 è uno di questi, e costituisce un esempio della dialettica normativa che, per semplicità, possiamo definire equilibrata fra centro e periferia. Nella versione originaria – che riprende il numero 22 di Sacrosanctum concilium – esso si apre con un paragrafo dichiarativo del principio generale che attribuisce solo alla Chiesa la potestà di definire le regole liturgiche (in sostanza esclude ingerenze di soggetti estranei) riconoscendo una competenza propria sia alla Sede apostolica sia ai Vescovi diocesani. Il secondo paragrafo precisa la competenza della Sede apostolica nel senso di ordinare la liturgia della Chiesa universale, pubblicando i libri liturgici, rivedendo (lett.: recognoscere) le loro versioni nelle lingue volgari e vigilando “ovunque” sulla fedele osservanza delle norme liturgiche. Il terzo paragrafo attribuisce alle Conferenze episcopali la competenza di predisporre le versioni dei libri liturgici nelle lingue volgari, anche “adattandole convenientemente” nei limiti previsti dagli stessi libri liturgici, per poi pubblicarli “praevia recognitione Sanctae Sedis”. Il quarto e ultimo paragrafo chiude il cerchio rammentando che al Vescovo diocesano spetta la competenza di dare norme liturgiche particolari che tutti i fedeli della sua diocesi sono tenuti ad osservare.
In sostanza il canone ripartisce con precisione le competenze legislative in materia liturgica partendo da quella propria dei singoli vescovi per le loro diocesi e differenziando quella della Sede apostolica (paragrafo secondo) da quella delle Conferenze episcopali (paragrafo terzo). Nella prassi tuttavia la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti ha operato attribuendosi un compito censorio connesso sia alla verifica della fedeltà delle traduzioni nelle lingue volgari rispetto alla Editio typica, sia alla pubblicazione dei libri liturgici particolari sulla base di un’errata interpretazione dei termini recognoscere e recognitio, grossolanamente tradotti in italiano con “autorizzare”.  L’errata interpretazione della recognitio come autorizzazione è stata messa in luce da un’apposita Nota esplicativa del 2006 del Pontificio consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi , che invita a rendere recognitio con revisione. La stessa Nota rammenta poi la sussistenza di una differenza giuridica fra recognitioapprobatio e confirmatio, nessuna delle quali equivale ad autorizzazione. Anche perché nella logica collegiale sarebbe errato suppore una subordinazione gerarchica fra organi chiamati a svolgere funzioni bensì collegate, ma in ogni caso diverse, rispetto alle quali nessuno è superiore ad un altro. La Sede apostolica quindi revisiona le versioni svolte dalle Conferenze episcopali, ma non le autorizza né approva né conferma. Anche la pubblicazione dei libri liturgici particolari era soggetta ad una revisione della Sede apostolica, che sulla base di Sacrosanctum concilium doveva intendersi in senso meramente tecnico e sussidiario, avrebbe altrimenti invaso una potestà normativa attribuita agli organismi territoriali.
La Congregazione interpretava però la sua funzione in senso diverso: nell’Istruzione Liturgiam authenticam (2001) esaltava la sua funzione di governo della liturgia intendendo la recognitio quale vera e propria approbatio, in assenza della quale supponeva gli atti assunti dalle Conferenze episcopali del tutto privi di forza normativa. Per cambiare questa interpretazione il legislatore universale è intervenuto modificando i paragrafi 2 e 3 del can. 838. Il primo di questi attribuisce adesso alla Sede apostolica la funzione di recognoscere (revisionare) gli adattamenti dei libri liturgici già approvati a norma del diritto dalle Conferenze episcopali e l’altro dispone che le Conferenze episcopali preparino e approvino i libri liturgici da utilizzare nelle regioni di loro pertinenza, accomodandoli convenientemente e fedelmente (nuovo avverbio), nonché pubblicandoli “post confirmationem Apostolicae Sedis”. La lettera di queste modifiche avrebbe dovuto tagliare la testa a qualsiasi ulteriore perplessità esecutiva. Il legislatore universale ha ribadito il  magnum principiumconciliare che negli anni si era perso e, a scanso di equivoci, la Santa Sede ha pubblicato una Nota del Segretario della Congregazione per il culto e la disciplina dei sacramenti che fra le altre cose precisa come la sostituzione di confirmatio in luogo di recognitio sia stata voluta proprio per lasciare alla Sede apostolica un intervento meramente confermativo della volontà espressa dalle Conferenze episcopali, unici soggetti competenti in materia di traduzione e accomodamento dei testi liturgici. A tale riguardo soccorre anche Sacrosanctum concilium (numero 36) che, riguardo alla lingua liturgica, si esprime nei termini di conferma da parte della Sede apostolica delle decisioni assunte dai vescovi su base territoriale e di approvazione delle traduzioni da parte delle medesime autorità territoriali (le Conferenze episcopali nazionali).La differenza tra confirmatio e recognitioriposa peraltro su solide basi canonistiche ed appare evidente che adesso è richiesta una mera confirmatio solo per pubblicare i libri liturgici già preparati e approvati dalle Conferenze episcopali, perciò pienamente dotati di forza normativa. La riforma del canone 838 va quindi intesa come la precisazione canonistica di un più largo disegno di restituzione della liturgia alla sua funzione comunicativa del messaggio di salvezza, che va oltre la “guerra delle traduzioni”.
Una volta si sarebbe detto Roma locuta, causa finita, ma i tempi sono cambiati; così il cardinale Sarah, Prefetto in carica della Congregazione chiamata per prima a cambiare passo, ha creduto opportuno manifestare il suo umile (benché cardinalizio) parere e segnalare la sua personale opposizione. Egli ritiene infatti che la riforma non abbia cambiato nulla e tenta una disperata difesa dell’equivalenza canonistica fra recognitio e confirmatio. A suo parere la riforma ha anzi rafforzato il ruolo della Congregazione, che non solo deve “riconoscere gli adattamenti” ma “confermare la fedeltà delle traduzioni”. Nel primo caso quindi il ruolo censorio resta invariato, e nel secondo addirittura accresciuto.
Questa interpretazione formalistica tradisce lo spirito della riforma e si oppone apertamente alla mente del legislatore. La resistenza cardinalizia esprime una visione centralistica, curiale e anticonciliare della Chiesa esplicitamente disegnata nella parte conclusiva del suo scritto, ove paragona paternalisticamente il rapporto fra la Sede apostolica e le Conferenze episcopali “alla responsabilità del professore nei confronti dello studente che prepara una tesi o, più semplicemente, dei genitori nei confronti dei compiti a casa dei figli”.  Questa visione piccina della Chiesa consegna l’immagine di un “prefetto piccolo”, adatto forse a svolgere compiti esecutivi, ma certo lontano dall’incarnare la funzione di servizio alla comunione episcopale che dovrebbe caratterizzarne il ruolo.
Questa circostanza induce ancora una volta a ragionare sull’ignoranza del diritto canonico e sulla sua strumentalizzazione come mezzo di conservazione del potere. Un arnese buono per mantenere il passato e condizionare il futuro, utile persino per resistere allo Spirito che ancora soffia nella Chiesa. Non abbiamo bisogno di battaglie di retroguardia. Non ci servono cardinali resistenti: abbiamo bisogno di un diritto canonico periferico, che parli le lingue degli uomini e delle donne per aiutare a vivere il Vangelo; abbiamo bisogno di una liturgia che esprima il mistero di Cristo nella vita della Chiesa; abbiamo bisogno di adattare le istituzioni alle esigenze del nostro tempo per favorire l’unione dei credenti in Cristo. Abbiamo bisogno di conversione.