Il Sal 32 canta la gloria di
Dio, signore della creazione e della storia. Il credente della Bibbia non
considera mai l’universo come semplice “natura” ma come realtà “creata”, e la
storia non la reputa come ineluttabile “destino” ma come “progetto” di Dio in
cui l’uomo è chiamato a collaborare. L’antifona d’ingresso, riprendendo parole
del Sal 73, ci invita a rinvigorire la nostra fede in questo progetto di Dio su
di noi: “Sii fedele, Signore, alla tua alleanza…” La prima lettura, tratta dal
libro della Sapienza, parla della “notte della liberazione”, quando Dio, fedele
alla parola data ai patriarchi, liberò il suo popolo dall’oppressione
dell’Egitto. Dio è sempre fedele alle sue promesse. Chi si appoggia a lui non
deve temere nulla, perché “egli è nostro aiuto e nostro scudo”. In questo
contesto, il ritornello del salmo responsoriale ci invita a ripetere: “Beato il
popolo scelto dal Signore”. Tema unificante i diversi testi è la fiducia attesa
in un Dio fedele.
La
prima lettura ci propone un brano dell’ultima sezione del libro della Sapienza,
che è una grandiosa rilettura sapienziale e teologica della storia d’Israele
con particolare attenzione all’evento fondamentale dell’Esodo. Al centro della
fede d’Israele sta sempre il ricordo di un Dio fedele, che ha portato a termine
il proprio impegno salvifico nei confronti del suo popolo. Il nostro brano
parla della “notte della liberazione” in cui Dio svelò nei confronti del popolo
eletto tutta la sua terribile potenza
conducendolo dalla schiavitù dell’Egitto alla libertà della terra promessa.
L’allusione
alla notte pasquale dell’Esodo è evidente nel brano evangelico, in particolare
in quelle parole di Gesù quando egli afferma: “siate pronti, con le vesti
strette ai fianchi e le lampade accese”, atteggiamento tipico di chi si
appresta a mettersi in viaggio come gli Ebrei in quella notte, alla vigilia
della loro fuga verso la libertà. La condizione di pellegrini verso la terra
promessa degli Ebrei nella prima Pasqua è la condizione nostra di tutta intera
la vita. Tutta la nostra esistenza terrena può essere considerata una Pasqua,
cioè un rito di passaggio. Diverse generazioni cristiane vissero nella
convinzione che Cristo sarebbe tornato nel cuore della grande notte pasquale,
immagine della lunga attesa della Chiesa, tema illustrato dalla prima parabola
della lettura evangelica. L’amore con cui riusciamo a stare svegli nel nostro
cammino terreno ci orienta alla speranza. Assieme all’amore e alla speranza si
intreccia la fede, di cui parla la seconda lettura: “la fede è fondamento di
ciò che si spera e prova di ciò che non si vede”. Modelli di questa fede sono
Abramo e Sara.
Alla
stregua di Israele, di Abramo e Sara, noi ci consideriamo stranieri e
pellegrini su questa terra, senza una città stabile quaggiù, in cerca di quella
futura e definitiva. Viviamo nell’attesa fiduciosa del Signore che ci condurrà
alla dimora definitiva. Quest’attesa deve dare senso al nostro agire
quotidiano. Quando si attende veramente qualcosa di importante, tutto il resto
assume un colore diverso, perde quasi di significato. Per noi cristiani “il
più” deve ancora venire. Non si può vivere il senso cristiano della vita senza
considerare che la nostra esistenza è orientata verso il Cristo che tornerà.
Ogni giorno è buono per stare svegli, tenere le lampade accese e accogliere il
Figlio dell’uomo che verrà. Ogni giorno, qualsiasi giorno, se colmo di attesa,
è giorno aperto al Signore e al suo dono. Nella celebrazione eucaristica ciò è
particolarmente vero perché “ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo
di questo calice, annunziamo la tua morte, Signore, nell’attesa della tua
venuta”.